EMILIO MANCINI

LA FONTANA DI EMPOLI

e

Luigi Pampaloni scultore fiorentino

EMPOLI

Tip. A. Lambruschini & C.

1920

 

 

Foto Archivio Mancini, Firenze

 


Nel centro della piazza principale di Empoli, di fronte alla Chiesa insigne e vetusta, che serba nella facciata le caratteristiche impronte dell’arte romanico-fiorentina e nel suo museo i capolavori di Lorenzo Monaco, di Taddeo Gaddi, di Mino da Fiesole, di Antonio Rossellino e del Cigoli, vollero i nostri maggiori innalzare un monumento non indegno di così gloriosa vicinanza, perpetuare nel candore del marmo e col suggello dell’arte un evento faustissimo per la  « nobile Terra » allora quieta e modesta sotto il paterno regime dei granduchi lorenesi.

E sorse la bella fontana, che in un gruppo elegantemente fuso e decorativo complette la pura grazia delle ninfe ignude con la possente vigoria delle belve soggiogate. Dalle fauci dei quattro leoni, signori del deserto arido, sgorga l’acqua perenne, mentre trionfano in alto le tre Naiadi, regine delle fresche e salubri scaturigini, quasi a simboleggiare che l’opera industre dell’ uomo debella ed asservisce le forze indocili della natura.

Di quest’opera, alla quale dedicarono la mente e la mano uomini ancor chiari nella storia dell’ arte o, più modestamente, nelle memorie cittadine, mi propongo di offrire alcuni brevi cenni, non privi di una certa curiosità per gli studiosi di cose artistiche né di un certo interesse per i pazienti ricercatori delle patrie cronache.

Dovere e riconoscenza m’ impongono anzitutto di rivolgere i più sinceri ringraziamenti all’ egregio cav. Giuseppe Romagnoli, che, con cortesia di gentiluomo ed affetto di amico, permise che consultassi numerosi documenti sulla costruzione della fontana, lasciati dall’ auditore avv. Gaetano Romagnoli, suo prozio. (1)

 


(1) Devo inoltre rivolgere i più sentiti ringraziamenti alla gentile Signora direttrice didattica Vittoria Maione-Setti, discendente di L. Pampaloni, la quale mise a mia disposizione il rarissimo ritratto che di questo scultore disegnò nel 1830 Carlo della Porta; come ringrazio la nobil donna Rina Ricci-Bardzka ved. Bini, che mi donò una fotografia del busto del gonfaloniere Mariano Bini, scolpito dal valente scultore empolese Dario Manetti.


 

Sin dal 15 aprile 1817 la Comunità di Empoli si proponeva, con una spesa di 1330 lire toscane (la lira toscana, com’è noto, valeva 85 centesimi di lira italiana, ma si deve por mente al maggior valore del denaro in quel tempo), di costruire una fontana formata da una colonna ottangolare di pietra, della circonferenza di sei braccia ed alta quattro, finita da un’ incorniciata e ripiena del cannone fino alla metà, ove doveva essere una pila di pietra per la sboccatura del condotto. Ma l’opera sarebbe stata inadeguata al bisogno e si lasciò in sospeso per il momento e per sempre.

 

 

Empoli – Piazza Farinata degli Uberti – La Fontana (Foto Cantini)

 

Cinque anni dopo, il 3 luglio 1822, il Magistrato comunitativo, presieduto dal gonfaloniere Giuseppe Lami, dopo aver solennemente considerato che  « fra i doveri di un Magistrato vi è quello certamente dell’amore del pubblico bene »  e che le acque dei pubblici e privati pozzi erano gravi e facilmente corruttibili, sottopose un nuovo progetto all’approvazione del provveditore della Camera delle Comunità.

Proponeva cioè di costruire una fontana, approfittando delle sorgenti perenni esistenti a circa due miglia di distanza, nel popolo di San Donato Val di Botte alla radice della collina di Piazzano, inferiormente alla strada Volterrana o di Sottopoggio: tre polle nei beni del cav. Francesco Franceschi Galletti di Pisa ed altre tre più piccole, di cui due nei terreni dello stesso proprietario, ed un’ altra in quelli del cav. Baly Martelli.

Si chiedeva la nomina di un ingegnere per studiare la questione ed intanto si nominavano due deputati con l’incarico di condurre le pratiche necessarie al compimento del provvedimento invocato. Furono scelti l’auditore Gaetano Romagnoli « benemerito concittadino »  ed il dott. Lorenzo Pierotti, che era uno dei priori del Magistrato stesso.

Già l’ ing. Neri Zocchi di Firenze aveva presentata la sua perizia e già l’ illustre marchese Cosimo Ridolfi, analizzata l’acqua, l’aveva trovata salubre e perfetta, quando i nostri padri coscritti, essendo stato

« posto in veduta da diversi individui della loro terra che esistevano delle sorgenti di acque potabili più abbondanti di quelle di Piazzano, segnatamente in luogo detto Sammontana »,

abbandonarono anche questo progetto.

« Essi signori adunati – così il partito comunitativo del 15 settembre 1823 – non possono che esternare il loro gradimento per lo zelo che viene manifestato dal pubblico per un sì salutare oggetto; commendando i predetti loro signori deputati che dimostrano somma attività, premura e massimo interesse per giungere mediante un resultato ad appagar le giuste brame di un pubblico che domanda di far uso di una bevanda tanto necessaria alla vita, cioè di un’acqua salubre, essendo al medesimo noto che per un tratto della Divina Provvidenza non mancano al Magistrato i mezzi per la sua effettuazione ».

Così furono abbandonate le polle di Piazzano, che erano in basso livello, di limitata quantità, tanto più che il proprietario voleva riserbarne una parte per uso di un suo contadino, e si ricorse alla sorgente di Sammontana, situata in terreno del Capitolo della Basilica fiorentina di S. Lorenzo.

Verso la fine del 1823 l’ ing. Zocchi presentava il nuovo progetto, che nell’adunanza del 31 dicembre il Magistrato approvò.

« La collinetta onde sgorga l’ acqua di Sammontana – dice la relazione – è contigua a vari terreni ove incontransi altre sorgenti, sebbene di minor conseguenza. Se mai nel lungo volger degli anni i nostri successori credessero di aumentare il volume delle acque, potranno farlo con poca spesa, incanalando le nuove sorgenti nei condotti già edificati ».

Il Cavalier Priore ed i canonici della Basilica Laurenziana ad unanimità esaudirono la domanda della gratuita concessione dell’ acqua: in memoria del beneficio il Magistrato del Comune, in segno di riconoscenza, esibì al Capitolo l’annua offerta di libbre due di cera bianca lavorata da presentarsi in perpetuo nel giorno 10 agosto sacro a S. Lorenzo. (2)

 


(2) Archivio Comunale di Empoli – Partiti del Magistrato, 31 dicembre 1823. Tale offerta cessò nel 1866, quando il Capitolo della Basilica fu soppresso.


 

L’ ing. Zocchi, che fece la relazione, calcolava preventivamente spesa dei lavori a lire toscane 77.168, soldi 17, denari 3, pari a 11000 scudi (L. it. 64.868,15); i lavori dovevano compiersi in quattro anni, a partire dal luglio del 1824. Dal Monte Pio sarebbe stata prelevata la somma di 3000 scudi; vedremo che si prelevò dall’ Opera pia una somma molto maggiore.

 

Stemmi del Monte Pio e del Municipio di Empoli

 

Il Monte Pio del Comune di Empoli era stato istituito nel 1570 con rescritto di Cosimo I dei Medici, affinché, tolti i banchi feneratizi degli Ebrei,

« massime dove erano soliti prestare li detti Ebrei, non si manchi di ogni comodità e sovvenzione a ciascuno che alla giornata aveva bisogno di accattare denari in su li pegni  ».

Nel 1790 aveva già un capitale superiore a 40.000 scudi, ma nel 1799, dopo l’ordine del generale francese Gualtier di restituire gratuitamente i pegni non superiori a dieci lire, il Monte dovette rendere 14.757 pegni per il valore complessivo di 9006 scudi (3).

 


(3) L. Lazzeri, Storia di Empoli (Empoli, Monti, 1873), pp.51 e 121


 

Nell’agosto del 1823, nonostante le perdite sofferte, specialmente in seguito ad altro meno umanitario salasso, cioè per il vuoto di cassa perpetrato dal massaio Lippi, possedeva lire toscane 421.350 al netto o, come si diceva, ridotto a oro (L. it. 354.186,81).

Gli inciampi burocratici non furono pochi né lievi, prima d’intraprendere i lavori. Anche dopo l’autorizzazione sovrana (26 marzo 1824) permanevano certi ostacoli da parte della Camera delle Comunità. Il 21 aprile come deputati all’ acquedotto venivan nominati  il gonfaloniere Mariano Bini e l’auditore Romagnoli.

Mariano di Saverio Bini nacque il 27 settembre 1771 e fu gonfaloniere dal 1823 a tutto il 1828, cioè nel periodo di tempo nel quale l’ opera dell’ acquedotto e della fonte fu iniziata e felicemente condotta a termine.

Con testamento del 4 gennaio 1843 elargì generose elemosine da distribuirsi annualmente ai poveri in diverse circostanze. Piissimo, nel 1849 fondò un’ uffiziatura sotto il titolo dei SS. Carlo Borromeo e Francesco Saverio nella Collegiata di Empoli e lasciò una somma per il catechista.

Morì di congestione polmonare il 28 ottobre 1855 e fu sepolto nella Chiesa dei Cappuccini,  presso l’altar maggiore,  in  cornu  evangelii,  ove un’epigrafe lo ricorda

« lodato per saviezza e amore del bene nel disimpegno dei pubblici uffici, giusto e industre nei commerci » (4)

 


(4) Di un suo diario manoscritto resi conto nell’ articolo « Vecchie cronache paesane », pubblicato nel Piccolo di Empoli (3 giugno 1917).


 

Mariano Bini, gonfaloniere e deputato all’acquedotto.

Gaetano Romagnoli nacque il 7 aprile 1777; laureatosi in legge, spiegò elevatezza di mente e cultura profonda nelle discipline giuridiche. Era versatissimo nelle lingue classiche. Nominato auditore del Magistrato supremo Tribunale di giustizia a Firenze, troncò presto la sua carriera, perché, nella necessità di dover pronunziare una sentenza di morte, egli, dotato di animo gentile, preferì rinunziare alla severa carica di giudice, dicendo al fratello Cosimo:

« Preparami la mia cameretta e teco passerò modesto cittadino i giorni della mia vita  ».

Nel 1829 gli successe nel gonfalonierato il dott. Giuseppe Ricci.

Nella Storia di Empoli del Lazzeri (5) troviamo il suo nome fra quelli dei cittadini ragguardevoli per dottrina e dignità incaricati nel settembre del 1814 di felicitare, in nome della terra natale, il granduca Ferdinando III tornato, dopo la caduta di Napoleone, al trono della Toscana.

 


(5) L. LAZZERI, op. cit., p.154 in nota.


 

Chiamato da’ suoi conterranei all’ amministrazione delle pubbliche cose ed eletto anche deputato alle scuole se ne occupò con amore e competenza tanto che sulla sua tomba, sotto il loggiato del Cimitero comunale, meritò una semplice, ma onorifica epigrafe:

« Qui giace l’ auditore Gaetano Romagnoli – benemerito della Patria – morto il 15 maggio 1848 in età di anni 71 ».

Nella stessa adunanza del 21 aprile si stabilì di mettere all’asta i lavori. Tra sei concorrenti fu assegnata l’ impresa all’accollatario livornese Giovan Battista Viviani, il quale offrì di eseguire l’opera con il ribasso del 13 per cento sulla stima resultante dalla perizia dell’ ing. Zocchi e con la mallevadoria del Sig. Vincenzo Benvenuti di Livorno.

La somma convenuta fu così di lire toscane 67.136, soldi 18, denari 3, cioè lire italiane 56.435,28 (6).

 


(6) Archivio Comunale di Empoli – Partiti del Magistrato, 25 maggio 1824


 

Il 18 giugno 1824, colpito da febbre violenta, improvvisamente spirava il granduca Ferdinando III, sicché nacque un senso di sgomento nell’ animo dei nostri deputati, prevedendosi nuove difficoltà e lungaggini.

Antonio Moggi, ingegnere civile della Provincia, il luglio cercava di frenare la legittima impazienza dell’ auditore Romagnoli :

« Sia tranquillo: nessuna disposizione sarà presa dalla Camera, che possa compromettere il decoro magistrale. Non dubiti, le fonti di Empoli debbono farsi, e tutti i diavoli non riuscirebbero adesso a guastar quest’ affare, dopo il rescritto del buon Principe che abbiamo perduto  » .

Infatti il 23 luglio 1824 il Romagnoli poteva finalmente invitare l’ing. Zocchi a sorvegliare l’inizio dei lavori. Ma il povero ingegnere nel settembre si ammalò gravemente d’ itterizia e di lì a poco morì.

L’imbarazzo dei deputati per questa dolorosa perdita, che arrestava il proseguimento dell’ opera, fu grande. L’ ing. Moggi, tessendo l’ elogio del valente collega perduto, incitava a bene sperare per l’avvenire :

« Perdiamo Zocchi — scriveva il 29 ottobre — e ne sono veramente afflitto. Egli era abile, probo e sollecito esecutore dei suoi progetti; non è facile il rimpiazzo: ma la mente perspicace dell’ ottimo Principe che ci governa saprà rimpiazzarlo; la fonte d’ Empoli proseguirà ».

Intanto, sopraggiunto un inverno eccezionalmente rigido, i lavori vennero sospesi.

*

 *         *

Dopo la morte dello Zocchi, i deputati chiesero al cav. Luigi De Cambray Digny d’indicarne il successore. Il conte Digny, che nacque a Firenze nel 1779 e vi morì nel 1843, era stato nominato nel 1820 direttore dello Scrittoio delle RR. Fabbriche e Giardini. Già nel 1818 l’Accademia empolese dei Gelosi Impazienti aveva da lui ottenuto il disegno del nuovo teatro, che con la spesa di 10.000 scudi venne dalle fondamenta costruito sul luogo del vecchio dovuto alla munificenza del poeta dott. Ippolito Neri e del suo fratello Pietro.

Il Digny indicò l’abilissimo ing. Giuseppe Martelli, già suo allievo e che aveva avuto modo di esercitarsi nell’idraulica a Parigi – sotto eccellenti direttori ed in opere grandiose. II 10 febbraio 1825 la nomina del nuovo ingegnere veniva approvata. Di lui, che era noto come il più solerte fra i migliori architetti del tempo, tessè la vita ampiamente Guglielmo Enrico Saltini, alle cui pagine rimandiamo quei lettori che non si appaghino delle brevi notizie che qui riferiamo. (7)

 


(7) G. E. SALTINI, Della vita e delle opere di Giuseppe Martelli, architetto e ingegnere fiorentino (Firenze, G. Carnesecchi e F., 1888).


 

Giuseppe Martelli nacque in Firenze nel 1792 e morì nel 1876. Fra le sue opere meritano ricordo i restauri al Conservatorio della SS. Annunziata, a Firenze, da lui nel 1824 ornato di un’ ammirabile scala a spirale, la Tribuna di Galileo eretta nel Museo di fisica e storia naturale, l’ordinamento delle due Camere nel 1848 per l’Assemblea nazionale toscana.

L’architetto Digny aveva di lui un alto concetto ed appena il Martelli tornò dalla Francia, lo raccomandò al Granduca, che con suo rescritto lo nominò commesso architetto sotto la direzione del Digny.

 « È manifesto – scrive il Saltini – quanta e qual parte avesse Luigi Digny nell’ educazione artistica dell’architetto Martelli ».

Nel 1860 il Governo della Toscana lo nominò direttore generale delle Fabbriche civili.

Tra i suoi amici ed estimatori sono ricordati uomini insigni nell’arte, come il Bartolini, il Pampaloni, Ulisse Cambi, nelle lettere, come Pietro Fraticelli, il Giusti, nel giure, come Vincenzo Salvagnoli (8), nell’aristocrazia, come Emanuele Fenzi ed Ubaldino Peruzzi.

 


 

(8) Riferiamo una lettera che il Salvagnoli scrisse al Martelli dalla sua villa di Corniola, presso Empoli (cfr. SALTINI, op. cit., p. 101)

Carissimo amico

                                                                                                 Dalla mia Pietra Dura, lì 26 ottobre 1831

Gradita mi fu la tua del 19 ma  più  mi sarebbe stata gradita la tua persona, perché m’è assolutamente necessaria. Se tu non vieni qua, almeno per poche ore, io son rovinato. La mia fabbrica va di male in peggio, e senza venir nel posto non è possibile che la tua abilità corregga il mal fatto e disegni il bene e il bello da farsi. Fammi questo piacere, vieni presto, e innanzi che si guasti il tempo. Se tu venissi qua la sera, la mattina osserveresti l’occorrente, e alle 10 al più tardi saresti a Firenze, e così non perderesti punto tempo. Dunque un dopo pranzo invece di andare al caro Armadio, vieni alla brutta Pietra Dura. Io insisto su questo favore e lo tengo come prova della tua amicizia, perché il non farmelo è danno irreparabile, il farmelo è sommo bene. Vieni, vieni, vieni. Non parlo ora del mio conto, perchè non mi pare che questi sieno tempi da simili nenie.

Ti aspetta e ti ama il tuo amico vero

                                                                                        V. SALVAGNOLI

 


 E siccome non rendeva che un omaggio al vero il Missirini scrivendo: « Il Martelli possiede genio e perizia e di buon gusto si adorna; non esce dalla sua mente concetto che elegante non sia » (9), i saggi amministratori empolesi non potevano aver fortuna maggiore.

 


(9) M. MISSIRINI, Quadro delle arti toscane dalla loro restaurazione fino ai nostri tempi (Forlì, Casali, 1837),  p.37.


 

Voglio infine ricordare che, quando lo scultore Luigi Pampaloni era ai suoi primi e, come vedremo, difficili passi della sua vita artistica, il Martelli gli dette a modellare una Flora di piombo per la scala a spirale del Collegio Militare (poi Liceo Dante, in Via della Scala), e questo primo notevole incarico dette modo al giovane scultore di far meglio conoscere la sua valentìa e di salire a più equa considerazione.

Anche per la fontana di Empoli troviamo uniti i nomi dei due valorosi artisti fiorentini, i quali nell’antico castello del Valdarno inferiore facevano quasi le prime prove dell’ arte loro, che così alta doveva poi splendere nell’ ammirazione dei contemporanei.

Anche del Pampaloni, che modellò le tre Naiadi, credo opportuno dare alcuni cenni biografici, tanto più che il nome suo, un tempo sì chiaro, appare oggi offuscato da un immeritato oblio.

 

*

 *         *

 

Luigi Pampaloni nacque in Firenze il 7 ottobre 1791, figlio di un modesto negoziante di generi coloniali. I due fratelli che ebbe si dedicarono anch’essi alle arti belle, Francesco ai lavori in alabastro, Giovanni all’architettura. Luigi era stato avviato allo studio delle lettere sotto i Padri Scolopi, ma egli si sentiva irresistibilmente attratto verso l’ arte, tanto che il padre suo dovette permettergli di frequentare l’Accademia di Belle Arti, che allora era diretta dal Piattoli, artista mediocre in tempi per l’arte sterilissimi.

Il Pampaloni, come narra il suo biografo, l’abate Melchior Missirini (10), si dette a copiar freschi, stampe e quadri ed a lucidare da cima a fondo il Flaxman, il disegnatore inglese che allora – sull’orme dell’ antico – educava l’occhio e la mano dei principianti.

Ma, dedicatosi poi alla scultura, andò a Pisa, per approfittare dell’ insegnamento e della pratica del suo fratello maggiore, che là teneva negozio di alabastraio, industria nostra antichissima ed a quei tempi in gran fiore.

Ivi, modellando quei piccoli lavori, che formano l’ornamento di tanti salotti e di tanti vestiboli, rivelò quella grazia, quella delicatezza di sentimento, che doveva essere la nota predominante della sua arte fattasi adulta. Dopo alcuni anni il giovane – per lungo tempo destinato a portar la sua vocazione tra la bottega e lo studio – fu condotto a Carrara. ove s’ inscrisse allievo di quell’Accademia. (11)

Mortigli entrambi i fratelli, il Pampaloni dovette ritornare in Firenze, per aiutare il vecchio padre e la sua famiglia disastrata nel commercio. Qui gli fu forza trar sollecito guadagno dal mestiere di sgrossatore e tagliatore di marmo, e come tale, o poco più, entrò nello studio dell’ illustre Bartolini, ove si risvegliò e si alimentò il sacro fuoco che le avverse circostanze ancora gli soffocavano in cuore. Dopo la dura  giornaliera  fatica, eseguiva figure di sua invenzione, sollevando così l’animo e la speranza a più alto segno.

 


(10) Memorie sulla vita e sui lavori dell’insigne scultore fiorentino Luigi Pampaloni, raccolte da MISSIRINI e pubblicate per cura di LORENZO ANTONINI (Firenze, A. Salani, 1882). Per  notizie  sul  Missirini cfr. G. MAZZONI, L’ Ottocento (Milano, Vallardi), p. 418.

(11) ORESTE RAGGI, Della R. Accademia di Belle Arti di Carrara (Roma, E. Sinimberghi, 1873), p. 60. Nel 1811 troviamo il Pampaloni concorrente ad un premio con P. Tenerani, B. Cacciatori e D. Carosi. Era professore nell’Accademia Carrarese il Bartolini.


 

Nel 1827 costruì per un signore polacco un piccolo monumento funerario rappresentante una giovinetta che dorme l’ eterno sonno, mentre un bimbo, con un ginocchio a terra e le mani giunte al petto, alza gli occhi al cielo, in atto di fervida preghiera.

Questo fanciullo è l’Orfano, il famoso Putto del Pampaloni, che tanto entusiasmo sollevò ovunque e che apri all’ autore la via della celebrità.

Lorenzo Bartolini stesso, secondo  quanto riferisce Paolo Emiliani Giudici (12), abbracciò l’artista e, per incoraggiarlo, gli donò una piccola somma che gli aveva prestata.

 


(12) Cfr. Gazette des Beaux-Arts, An. I, t. II, Paris, 1859, pp. 40-46.


 

A dir vero, soggiunge lo stesso scrittore, questo fortunatissimo lavoro non giustifica così universale successo; il movimento della figura era falso e più addicevole ad una Maddalena penitente;

« ma il pubblico, colpito dall’abbondanza di vita e dalla passione che animava la statua del Pampaloni, applaudiva lo scultore, come un giudice che sente e che non ragiona ».

Una coincidenza singolarissima contribuì a dare all’opera ancora maggior risalto e divulgazione.

Mentre veniva esposto l’ Orfano, figurava nelle vetrine di molti librai fiorentini una stampa con inciso il ritratto del figlio di Napoleone I, del giovane Duca di Reichstadt, in un atteggiamento simile a quello della statua del Pampaloni. In basso all’ incisione era scritto:

« Dio mio! Io vi prego per mio padre e per la Francia! »

II pubblico, notata la rassomiglianza, credette che lo scultore avesse voluto rappresentare l’infelice Aiglon e vide nell’opera d’arte una riposta significazione politica.

Era quello il tempo in cui la Santa Alleanza gravava i popoli col peso di una rigida tirannia, quando l’ Italia, con ancora negli occhi e nel cuore il fulgore della meteora napoleonica, giaceva avvinta sotto un giogo reso più insopportabile dopo le concepite speranze e le risorte aspirazioni.

Al piccolo erede del gran nome italiano gli italiani fissavano lo sguardo come una stella solitaria sull’orizzonte chiuso; egli avrebbe sollevato le aquile e riparate le colpe paterne.

Circonfusa della simbolica aureola, la statua ebbe un pregio ed un’ attrattiva di più. Quasi stanco di farne delle repliche, l’ autore concesse generosamente ai figurinai lucchesi il permesso di gettare il putto in gesso e così le copie in ogni misura ed ovunque si diffusero.

Si racconta che una volta lo scultore, recatosi a Lucca per collocare in una chiesa un mausoleo, fu avvicinato da uno sconosciuto che, piangendo di commozione, volle baciargli le mani in segno di riconoscenza. Quell’ uomo era un povero operaio che, mediante la riproduzione del putto, aveva guadagnato di che comprare un podere. (13)

 


(13) Il Pampaloni ebbe più volte occasione di raffigurare nel marmo i Bonaparte. Il Saltini parla di certi ritrattini dell’ Imperatore, alti meno di dieci centimetri, che il Pampaloni, alle sue prime armi, metteva in commercio per campare. Mario Foresi, discorrendo Di un Principe russo e di una principessa napoleonica (in Nuova Antologia, 16 giugno 1915, p. 598) descrive il Museo di S. Martino dell’ Elba, istituito dal principe Anatolio Demidoff ed ora disperso. « Del Pampaloni – scrive – c’era il busto del giovane Duca di Reichstadt, il pallido giacinto, compiuto nel 1846, quello di Giuseppe, quello di Luciano e quello di Girolamo». Altri busti di Napoleonidi ricorda il Missirini; per la cappella gentilizia dei Bonaparte, nella Chiesa collegiata di Canino, il Pampaloni fece il monumento sepolcrale per Luciano.


 

Da allora in poi egli fu lo scultore di moda. Il Romanticismo sospirava in quel fanciullo genuflesso ed orante. Ma al plauso dei profani non si univa ancora una giusta stima dei colleghi, che consideravano il Pampaloni quasi come un praticante geniale e fortunato. Non tardò l’occasione di convincere anche costoro.

Quando la piazza del Duomo, a Firenze, venne, secondo il disegno dell’architetto Baccani, accresciuta di spazio e di decoro, fra i nuovi edifizi costruiti per la Canonica, in due apposite tribune, fu stabilito di collocare le immagini dei due massimi artefici della basilica di S. Maria del Fiore, Arnolfo di Cambio e Filippo Brunelleschi. Luigi Pampaloni fu incaricato dell’ esecuzione delle statue colossali.

Mentre lo scultore attendeva a dar l’ultima mano al poderoso lavoro, venne in Firenze un artista che allora teneva il primato nella statuaria, Alberto Thorwaldsen, danese di nascita, romano di elezione, lo scultore celebrato come quello che aveva richiamato l’arte all’ altezza ed alla purità delle forme fidiache.

Egli visitò i due colossi scolpiti dal Pampaloni ed ebbe ad esprimere un giudizio che fu la più solenne consacrazione artistica del giovane autore. Le due statue – avrebbe detto tra gli altri elogi il grande scultore (14) – ritraggono il vigore dell’età in cui vivevano i grandi uomini che rappresentano e la solidità, la magnificenza, la nitidezza e la grandezza della loro arte.

 


(14) MISSIRINI, op. cit., pp. 15-16.


 

Le parole lusinghiere del Thorwaldsen destarono la generale curiosità; quando finalmente venne il giorno dell’ inaugurazione, l’8 giugno 1830 – fu un nuovo, incontrastato trionfo per il Pampaloni. In versi ed in prosa nella stampa nostra e straniera fu esaltata la duplice opera; il dotto abate Zannoni scrisse per i basamenti le iscrizioni latine. (15)

 


(15) Ricordiamo l’ opuscolo: Delle statue di Arnolfo di Lapo e di Filippo di Ser Brunellesco eseguite da L. Pampaloni e pubblicate da Luigi Bardi – Dichiarazione di M.MISSIRINI (Pisa, F. Didot, MDCCCXXX). — Filippo CICOGNANI, Al Sig. Luigi Pampaloni scultoreOde (seconda edizione, Firenze, Coen e C. , 1830). — G. TOSCHI VESPASIANI, Al genio sorprendente del Sig. Luigi Pampaloni scultore fiorentino per le due statue in marmo Arnolfo di Lapo e Filippo di Brunellesco – Ode (Firenze, Faini, 1830).

A proposito di queste statue notiamo nella diffusa Storia dell’Arte di G. NATALI ed E. VITELLI (Torino, 1914, vol. III, p. 222) queste parole: «  Emulo del Bartolini fu Luigi Pampaloni… popolarissimo a Firenze, artista di delicato sentimento, autore delle statue d’ Arnolfo e di Filippo Brunelleschi nella facciata del Duomo »!!!


 

G. E. Saltini, nella sua memoria storica  sulle Arti Belle in Toscana, così descrive le due statue, che ora, quasi schiacciate da due pesanti nicchie e collocate troppo in basso, perdono non poco della loro bellezza: « La fama che godono questi due capolavori ci dispensa dal lodarli: diremo solo che ambedue le statue stanno sedenti; Arnolfo vestito di lucco, tutto assorto nel suo concetto, appoggia il destro braccio alla tavola, ove è delineata la pianta del tempio, e tiene nella sinistra mano il decreto che ne ordina l’ erezione; Brunellesco, ravvolto anch’esso in ampio panneggiato, sostiene con la mano sinistra una tavola, ha nella destra il compasso per misurare, con l’ occhio fissato in alto, quella stupenda cupola immaginata dal suo intelletto creatore ». (16)

 


(16) G. E. SALTINI,   Le   Arti  belle in Toscana da mezzo il secolo XVII ai dì nostri. (Firenze, Le Monnier, 1862), p. 29.


 

Pregio caratteristico di queste statue è il superbo panneggiato, il quale – quasi negletto sino allora – vi è trattato magistralmente, con eleganza e naturalezza, sì che sembra l’ aria vi circoli sotto. (17)

 


(17) P. EMILIANI GIUDICI art. cit.


 

Dopo questo successo, il Pampaloni fu nominato professore della R. Accademia ed ebbe un ricco dono dal granduca Leopoldo II, che nello studio dell’ artista aveva ammirato i due grandiosi simulacri.

Numerosi e bei lavori – or graziosi e leggiadri, or maestosi ed austeri – creò lo scalpello  del  nostro  infaticabile  artefice.  Ne ricorderemo solo i principali e fra essi la grande statua che i Pisani nel 1833 eressero in Piazza S. Caterina a Pietro  Leopoldo,  « quaranta anni – come dice la semplice iscrizione  – dopo la sua morte ». L’ imbasamento è opera dell’architetto pisano Alessandro Gherardesca ed i bassorilievi in marmo di Emilio Santarelli e di Telemaco Guerrazzi. II Pampaloni, per quest’opera tipica del freddo classicismo accademico in voga in quel tempo, ottenne onori straordinari e fu insignito della cittadinanza pisana.

Notiamo inoltre il sarcofago che i Lucchesi innalzarono nel 1835 nella chiesa di S. Frediano al traduttore del Paradiso perduto, Lazzero Papi (18); l’urna di Virginia De Blasis posta nel 1839 nel chiostro di S. Croce in Firenze, ove la celebre cantatrice è rappresentata in ginocchio sul proprio tumulo nell’atto di modulare l’aria del Bellini sua prediletta, la melodia dell’ ultimo atto della Beatrice di Tenda:

E se un’urna è a me concessa

Senza un fior non la lasciate;

 

la statua di Leonardo da Vinci per il portico vasariano degli Uffizi; quella di Leopoldo II nella Piazza del Tribunale di S. Miniato. (19)

 


(18) Nell’ articolo di C. F. Ansaldi: Lazzero Papi in occasione delle onoranze (in Nuova Antologia, settembre 1905) è riprodotta un’ incisione del monumento.  « Su di un cippo – così lo descrive il Saltini – al cui piede sono alcuni volumi e un cigno vigilante, posa l’erma del traduttore di Milton, e gli sta presso dolcemente piegata la musa Calliope passandogli attorno al collo il braccio sinistro. Opera di ottimo concetto, maestosa ad un tempo e gentile  ». L’ epigrafe è del Giordani.

(19) Per mostrare la propria riconoscenza a Leopoldo II, che aveva istituito in S. Miniato il Tribunale e la Sotto-prefettura, autorevoli cittadini formarono un Comitato sotto la presidenza di Pietro Bagnoli, autore del Cadmo e dell’ Orlando Savio e precettore del Granduca, allo scopo di erigere al Principe una statua marmorea. Questa doveva sorgere – come dice il verbale del Comitato – « dinanzi alla sovrana beneficenza », cioè di fronte al Palazzo del Tribunale, in Piazza S. Sebastiano, da allora intitolata a Leopoldo e, dopo il 1859, a Bonaparte. Il Pampaloni raffigurò il Granduca in toga romana e con in mano il decreto della concessione.

I giorni 6 e 7 dell’ agosto 1843, stabiliti per l’ inaugurazione del monumento – secondo quanto riferisce nei suoi documenti inediti il samminiatese Vensi – furono giorni di gioia: il Bagnoli pronunziò il discorso inaugurale, poi pubblicato. Cfr. Atti per l’erezione della statua al Granduca nell’ Archivio comunale di San Miniato, nonché G. RONDONI, Memorie storiche di Samminiato al Tedesco (Samminiato, M. Ristori, 1877), p.198 e G. DELLI, Un poeta dimenticato: Pietro Bagnoli (in Miscellanea Storica della Valdelsa, Castelfiorentino, 1919, n. 79, p. 132).


 

Ma l’arte delicata e squisita del Pampaloni più rifulge nelle opere ove il sentimento predomina, come nell’ lnnocenza, una fanciulla che scherza con le tortore: statua che il Granduca ebbe la peregrina idea di donare all’ innocentissima anima del principe di Metternich; nella Cloe, una giovanetta nuda che, mentre è intenta a coglier rose, si ritira atterrita all’ improvviso apparire di un serpe: opera questa ispirata al virgiliano latet anguis in herba e stimata la più elegante fra le elegantissime, del Pampaloni; infine nella Maddalena Penitente, che accrebbe e consolidò la fama del nostro scultore. (20)

 


(20) Nell’opuscolo La « Cloe » di L. Pampaloni (Firenze, L. Ciardetti, 1837) l’ abate MISSIRINI scrive: « Il Pampaloni direbbesi l’Andrea del Sarto della scultura. Ei, come quello, con i soli elementi naturali bene scelti, ben condotti, ottiene senza richiesta i plausi tanto cercati dagli idealisti. Niuno sforzo, niuno studio, niuna fatica vedi in quest’ opera. Ella è soffiata »  (p. 13). Pari entusiasmo troviamo in una lettera, che, con la data di Pisa, 20 aprile 1831, venne pubblicata da un F. X. ed indirizzata al noto pittore dell’ Entrata di Carlo VIII in Firenze: La preghiera d’un cuore innocente ossia un putto di L. Pampaloni posseduto dalla nobil donna sig.ra contessa Elena Amati-Mastiani. Lettera di F. X. a Giuseppe Bezzuoli. L’incognito ammiratore crede che con questo putto il Pampaloni, « lasciando indietro il Fiammingo, Guido, Tiziano, l’Allegri, l’Albano, Reynolds, il Pussino e spiegando arditissimo volo, ha raggiunto le orme del terribile e stupendissimo Donatello ».  Il che, secondo la moda del tempo, è troppo retorico per esser vero. Cfr. anche l’opuscolo: Di una statua rappresentante « Amore »  di Luigi Pampaloni (Firenze, 1835).

Nel  Museo  di  pittura  e  scultura,   pubblicazione  che  raccoglie  i  principali capolavori delle Gallerie d’ Europa, disegnati ed incisi sull’ acciaio dal Reveil ed illustrati dal Duchesne (Firenze, P. Fumagalli, 1841), troviamo del Pampaloni riprodotte le figure di Arnolfo e del Brunelleschi (VOL. IX, pp. 116-117), di Pietro Leopoldo (XIII, 105), di Amore e della Maddalena (Appendice, vol. II pp. 91 e 137). Inoltre cfr. CARLO PONTANI, Delle opere del prof. Luigi Pampaloni scultore fiorentino (estratto dal Tiberino, n. 49, Roma, Pucinelli, 1839).

 


 

Firenze – Uffizi: Statua di Leonardo

 

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La gentilezza che Luigi Pampaloni rivelò nelle sue opere migliori non è smentita dalle testimonianze della sua vita privata. Rimasto assai presto solo dopo la morte dei due fratelli e dei genitori, si accasò con un’ ottima donna, Carolina Donzelli, rimasta vedova in giovane età con una piccola bimba, di nome Giuseppina, alla quale il nostro scultore, non avendo figli propri, pose un tenerissimo affetto e dette  una compiuta  educazione.

Dalla figlia adottiva, sposatasi poi ad un  artista che dopo un anno l’abbandonò, ebbe accresciuta la famiglia di una bambina, che volle chiamare Luigia ed alla quale pure dedicò cure paterne affettuosissime. La sua consorte gli era di dolce conforto e d’incitamento, tanto che nel cuore del Pampaloni due purissimi amori regnarono sovrani, quello per la famiglia e quello per l’ arte.

Non invido, quando sorsero le dispute sull’ Abele ed il Duprè fu calunniato di aver gettata la statua sul vero, il Pampaloni fu tra i pochi che presero apertamente le difese di lui. (21)

 


(21) G.DUPRE’, Pensieri sull’arte e ricordi autobiografici (Firenze, Succ. Le Monnier, 1880), cap. VI, 105.


 

Disinteressato e generoso, non trasse dal suo indefesso lavoro tutto quel guadagno che ben gli sarebbe spettato. La morte lo colse in ancor virile età, il 17 dicembre 1847, fra lo strazio delle sue donne adorate ed il compianto generale. Fu sepolto nei sotterranei della chiesa di S. Croce ed alla sua dimora venne collocata una lapide altamente laudativa (22).


(22) L’epigrafe, alla casa n. 16 di Via Ginori, dice:  « Qui abitò e morì il XVII dicembre MDCCCXLVII – Luigi Pampaloni – cui natura pose in mano lo scalpello – e lo studio del vero e l’intelletto dell’ arte – fecero emulatore dei grandi maestri.  » Sulla tomba del Pampaloni, nei sotterranei di S. Croce, è un monumento in marmo, assai modesto: in un bassorilievo un’ urna piramidale, presso la quale piangono due donne; la più giovane vi depone una corona di rose. In  alto  è  il  busto  del  defunto.  Su una faccia della piramide si legge:  

« Alla memoria di colui che sculse l’Arnolfo e il Brunellesco locati in Firenze rimpetto al loro prodigio, piangete esanime l’ animatore del Puttino pregante. Morto li 17 dicembre 1847 di anni 56. La moglie e la figlia dolenti questa memoria posero li 17 agosto 1857 di contro alla Sua sepoltura distante metri 8. »

La Patria, giornale liberale diretto da Vincenzo Salvagnoli, nel dare, il 18 dicembre 1847, l’annunzio della morte del nostro scultore, scriveva:

«… Le belle arti hanno perduto ieri un luminare nello scultore Luigi Pampaloni. Egli traeva dalla schietta natura quella forza che infondeva nel marmo e lo animava. Le statue di Arnolfo e di Brunellesco non potevano essere scolpite se non da chi sentiva nell’animo la grandezza della libertà antica e nuova ».

Fu allievo del Nostro lo scultore Bernardo Casoni (cfr. A. BORZELLI. Prime linee di una storia della scultura italiana nel secolo XIX. Napoli, 1912, p. 83)

 


 

Qual posto occupa Luigi Pampaloni nella storia della scultura moderna?

L’ arte, rigenerata dal Canova, con lo studio degli incomparabili esemplari greci, al principio del secolo XIX languiva d’inedia. La troppo chiusa e superficiale imitazione dell’antico – dal quale solo sommi come il Canova, il David, il Thorwaldsen trassero ispirazione e fecondo ammaestramento – condusse l’arte ad un vuoto convenzionalismo, a forme monotone, fredde e lisciate.

Dal vero, considerato come tomba dei vati, distoglievano gli occhi anche gli artisti della plastica. Ai seguaci dei classici tennero dietro gli imitatori degli imitatori; la sterile imitazione degenerò nel manierismo. Il Benvenuti, a Firenze, esaltando il francese David, il Ricci dietro le orme del Canova, il Camuccini a Roma, l’Appiani a Milano, instaurarono quella maniera pedantesca, svigorita ed uniforme che fu detta accademica.

Bisognava attenersi a certe norme, a certi modelli, oltre i quali non era salvezza. Giaceva prostrata in ceppi la grande arte, mentre l’accademicismo spadroneggiante, ufficialmente protetto ed accarezzato, s’ illudeva di alimentarla con i suoi meschini ricettari.

Nei primi decenni del secolo passato troviamo a capo dell’Accademia fiorentina di Belle Arti il pistoiese Francesco Carradori e Stefano Ricci, autore del monumento a Dante in Santa Croce: le intenzioni erano buone, ma la strada era sbagliata.

Sorse finalmente chi – con clamoroso scandalo per le anime timorate – volse risolutamente le spalle all’Accademia.

Alla natura che – come si legge sulla tomba di lui in Santa Croce – è lumen artium, ritornò Lorenzo Bartolini e con spirito audace e battagliero e, ancor meglio, con lo splendore dell’esempio, prese ad abbattere gli pseudo classicisti, i fiacchi residui del canovismo, a deridere ogni vanitosa retorica, ogni ciarpame paganeggiante, disperdendo la chiusa muffa e la veneranda polvere dell’ Accademia con impetuose ondate di aria fresca.

Anzi, succeduto nel 1837 al Ricci nell’ insegnamento della scultura – per spirito di reazione e con audacia di novatore – voleva introdurre nella scuola perfino un gobbo per modello.

Le discussioni fervevano animatissime. Anche il Pampaloni vi prese una non piccola parte e, d’animo non così incline alla lotta né così radicalmente rivoluzionario, stimò eccessive e dannose le teorie del maestro e gli fu contrario (23) per quanto non fosse servilmente ligio all’ accademicismo, anzi, ben lontano dal ripudiare il vero e misuratamente innovatore, mirasse ad esprimere nella dignità e castigatezza delle classiche forme la grazia ingenua e la forza inesauribile che emanano dalla natura. Del resto neppure il naturalismo del Bartolini era puro né senza incertezze, almeno nella pratica, ma fuso con un ideale che lo rendeva estetico per eccellenza (24).

 


(23) « Chi ignora le bizze e le parole mordaci tra il Pampaloni e il Bartolini, tra il Benvenuti ed il Sabatelli, tra il Bezzuoli ed il Gazzarrini? »  (op. cit., cap. XVIII, p. 348).

(24) D. C., Della scultura e della pittura italiana dal principio del secolo fino ad oggi (in Nuova Antologia, 30 giugno 1866).


 

Ai suoi tempi il Pampaloni era, tra gli artisti nostri, quello stimato più degno di stare appresso al Bartolini.

«  Artista d’ingegno pronto, – lo dichiara il Cavallucci (25) – di grande spontaneità, ebbe fama non eclissata da quella del Bartolini  ».

 


(25) C. J. CAVALLUCCI,  Manuale di Storia di scultura (Torino, E. Loescher, 1884. p. 396). Più  severo  giudizio,  nel  confronto  tra  i  due  valenti  scultori, espresse FEDERIGO MERCERY:

 « Bartolini sait faire la chair, ce que Pampaloni, son rival de Florence dans la sculpture des bustes, paraît absolument ignorer » . (La peinture et la sculpture en Italie nella Revue des Deux mondes. (1840, III, p. 215).

Il BORZELLI (op. cit.) scrive che

«  il Pampaloni in piccola parte già risente del novatore ».


 

Paolo Emiliani Giudici, che dodici anni dopo la morte del Pampaloni ne scriveva a lungo e con viva simpatia nel citato articolo della Gazette des Beaux-Arts, asseriva che la sua reputazione era sì viva e fresca che gli amatori dell’ arte non lasciavano Firenze, senza aver veduto nello studio di piazza S. Marco almeno i modelli delle opere d’ uno scultore che aveva occupato col Bartolini il primo posto fra gli statuari moderni.

« Egli – prosegue l’ articolista – fu scultore per la sola grazia del suo genio e scultore a buon diritto ammirabile. Negli annali del suo tempo, egli ha un posto a parte….

Senza avere la scienza profonda del Bartolini né uno spirito così elevato, il Pampaloni fu uno di quegli scultori che non pensano che alla forma. Gli bastava di trovare un motivo che si prestasse alle delicatezze della sua arte, e, senz’ altra preoccupazione, modellava il suo gruppo e la sua figura e l’eseguiva con un tal sentimento della vita che avvinceva con ciò anche i più intelligenti.

Capace di trattare talvolta soggetti gravi, egli era portato molto meglio ai soggetti graziosi e leggeri, a quelli che parlano agli occhi piuttosto che allo spirito, e che hanno per scopo di svegliare nell’ anima emozioni dolci e sensazioni piacevoli. Così si può dire di lui, se bisognasse caratterizzare con una parola il suo genio, che egli fu l’Anacreonte della scultura moderna ».

Con felicissima scelta dunque, per la marmorea fontana di Empoli, monumento di eleganza e vaghezza, i nostri avi richiesero l’ opera di Luigi Pampaloni, come ebbero ottimo pensiero nel sollecitare la collaborazione del suo coetaneo, Luigi Giovannozzi.

Era questi uno scultore assai valente – come dice il Saltini che ne fa fuggevole cenno – tra i cosiddetti ornatisti di stile.

 «  I lavori di squisito disegno e di perfetta esecuzione eseguiti nei monumenti della contessa d’Albany e dell’ architetto Digny in Santa Croce in Firenze, come pure quelli bellissimi della Tribuna di Galileo, mostrano chiaramente, come tutte le molte altre sue opere, quanto abbia gusto del disegno, franchezza nel modellare ed abilità non comune nel lavoro dei marmi ». (26)

 


 (26) SALTINI, Le Arti belle ecc. p.32-33. Sono di Luigi Giovannozzi i due leoni che guardano l’uno il Palazzo Ghibellino e l’altro il Pretorio: sotto la bocca di essi si legge: «Luigi-Giovannozzi- f. 1828  »


 

Questi furono i principali artefici della fontana, ai quali va aggiunto uno più oscuro: Ottavio Giovannozzi.

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 *         *

Sotto il vigoroso impulso dell’ ing. Martelli, i lavori dell’ acquedotto proseguirono alacremente. L’impresa fu assunta, come si è detto, dai signori G. B. Viviani e Benvenuti, con i quali, come succede in simili faccende, non sempre le cose andarono lisce.

Infatti nell’ incartamento Romagnoli, negli ultimi mesi del 1825 ed i primi giorni del seguente anno, molto si parla di una liquidazione inquietante con gli accollatari, che chiedevano, per certe loro ragioni, dei risarcimenti, sinché Giuseppe Martelli, con lettera del 16 gennaio, potè finalmente annunziare un equo accomodamento, approfittando di uno di essi, il Viviani, che pare fosse più discreto e ragionevole del suo compagno, ai cui sottili cavilli l’ ingegnere-capo si vanta di non essersi lasciato punto accalappiare.

Spetta all’ ing. Martelli il merito del disegno, così elegante e decoroso, della nuova fontana. L’ autore richiese consiglio anche all’ illustre Lorenzo Bartolini, il quale gli scrisse in proposito 1a seguente lettera, in data del 29 ottobre 1826:

Caro amico,

Avendo sempre avuto in mente la tua bella fontana e pensato all’ inconveniente che ti disturbava, sembrami che, levando lo zoccolo ove posano i leoni (se le regole architettoniche lo permettono), potresti ottenere un miglior effetto, tanto più che la linea dello scurino resterebbe libera sul piano della base principale e non avrebbe il confronto di questo dettaglio; oltre il poter collocare i detti leoni con più verità, mentre le zampe dei medesimi non disdirebbero quando ancora oltrepassassero il vivo del già detto imbasamento.

Scusa l’ impertinenza, ricevi il complimento solito ed abbi cura del tuo amico

  BARTOLINI

Ma il consiglio del celebre scultore della Fiducia in Dio non poté essere accolto ed il disegno del Martelli, scartato un altro progetto di fonte consistente in quattro grandi vasche, fu approvato.

Fu steso e firmato il contratto che impegnava gli artisti Pampaloni e Luigi Giovannozzi all’ esecuzione delle statue in marmo, contratto che qui pubblichiamo:

I sottoscritti scultori Luigi Pampaloni e Luigi Giovannozzi si obbligano di eseguire  in   marmo  il  gruppo  di  mezzo  della  fontana  da erigersi  sulla  Piazza

d’ Empoli, il quale sarà composto di tre Ninfe rappresentanti delle Naiadi sostenenti la tazza o piatto in attitudini variate, come i buoni precetti dell’ arte ed il miglior gusto prescrivono, adornate degli analoghi emblemi e parcamente aggiustate di panneggiamenti.

Lo spazio fra la parte superiore dell’ imbasamento su cui dovrà posare questo gruppo, e la parte inferiore del piatto è di B. 2, 16, 4. In questo spazio dovrà esservi situato, oltre le tre figure, una scogliera sottoposta alle medesime dell’altezza di s. 4.

        Il modello in creta sarà fatto la metà della grandezza che dovrà eseguirsi in marmo.

Il prezzo di questo lavoro, compreso il modello, resta fissato di lire duemilaottocento. Resta convenuto che sono comprese nella suddetta somma di lire duemilaottocento tutte le spese di trasporto fino a Empoli, dazio e tutti i diritti da pagarsi sì per l’ introduzione in Toscana, che per tutto il transito delle suddette figure di marmo.

Il carattere della scultura dovrà essere adattato al luogo ed uso a cui deve servire, ed il modello in creta sarà fatto in modo da soddisfare il sig. ing. Giuseppe Martelli, il quale è stato eletto alla direzione di questo lavoro.

Sarà reso ultimato a Empoli questo gruppo nel tempo e termine di mesi cinque da cominciare dal prossimo futuro settembre. Il pagamento della somma convenuta di lire duemilaottocento sarà fatto in quattro rate; la prima di esse di zecchini venticinque sarà pagata subito dopo fatto il modello, e le altre tre, fra loro eguali, saranno distribuite in proporzione dell’ avanzamento del lavoro.

Mancando a qualunque delle condizioni sopra espresse, dovranno gli accollatari rilasciare in vantaggio della Cassa del Monte Pio d’ Empoli lire cinquecento per penale. E per l’esecuzione dei prescritti patti gli infrascritti impresari obbligano le loro persone e beni, e beni de’ suoi eredi agli illustrissimi signori Deputati alla costruzione del nuovo condotto di Empoli.

Fatto a Firenze questo di trenta agosto milleottocentoventisei, alla presenza dei sottoscritti testimoni aventi i requisiti voluti dalle leggi.

                                                               LUIGI PAMPALONI, LUIGI GIOVANNOZZI.

Io Giovacchino Faldi, testimone – Io Luigi Maestrini, testimone – Mariano Bini, gonfaloniere e deputato – Auditore G. Romagnoli, deputato – Giuseppe Martelli, architetto.

Il termine di cinque mesi fu evidentemente sorpassato, se in una lettera scritta dal Martelli il 10 febbraio 1827 leggiamo che « Luigi Pampaloni ha ricevuto L. 100 a conto del suo avere per l’ esecuzione del gruppo delle Naiadi » e Luigi Giovannozzi domanda un acconto di L. 300 sul lavoro di quadratura di cui egli è accollatario. In altra lettera del 3 marzo dello stesso ingegnere si legge che « il Pampaloni ha avanzato il suo modello delle tre Naiadi e domanda un secondo acconto di L. 100 ».

Nell’anno 1826 il Martelli chiamò « Ottavio e Luigi Giovannozzi accollatari dei quattro leoni di marmo ». Infatti resulta che due leoni furono scolpiti da Ottavio e due da Luigi Giovannozzi, il quale ultimo scolpì anche la vasca, il fusto a sostegno della tazza, che fu da lui modellato in creta, gettato in gesso ed eseguito infine in marmo unito alle Naiadi.

Pare che tra i due Giovannozzi nascesse un attrito, che si manifesta in una lettera di Luigi in data del 31 dicembre 1827, nella quale egli, « riuscite vane le premure fatte per ottenere il rimborso del rimanente del valore dei marmi da lui provvisti per eseguire i due leoni della fontana, ed avendogli il medesimo [Ottavio] fatto comprendere che senza avere tal denaro da Empoli in acconto di quel lavoro non ha mezzo di poter aderire alle sue richieste », ricorre ai deputati all’acquedotto, dopo essersi già rivolto al Martelli.

Soltanto due mesi dopo (28 febbraio 1828) questi poté informare il Romagnoli che Ottavio Giovannozzi aveva terminato i leoni e solo nell’estate di quell’anno la fontana era terminata.

II 23 agosto il Martelli scriveva di aspettare la collocazione a posto del piatto « per potere assieme col Sig. Pampaloni e Giovannozzi giudicar dell’ effetto del gruppo, e far dar l’ ultima mano  ».

Sin dal giugno i due deputati avevano rivolto domanda al Magistrato comunitativo per ottenere i fondi necessari alla costruzione di un vasto, illuminato e difeso locale per i lavori di piazza. Si attese sino al novembre all’erezione della nuova mole.

« Ottavio Giovannozzi – scrive il 5 di quel mese il Martelli – fa continue premure per recarsi a Empoli con me, ma voglio vedere di persuaderlo a restare in Firenze per evitare le fischiate di cotesti abitanti. Vedo però difficile di accomodare gli interessi fra Luigi e Ottavio avanti di portarmi a Empoli con il primo. In quanto alle altre piccole cose che restano da fare alla fontana, ho già dato le necessarie disposizioni  ».

Col declinare dell’ anno si poneva termine al quadriennale lavoro. Il 12 settembre 1828 il Magistrato approvò il regolamento per la manutenzione e la pulizia della fontana; il 30 dicembre ringraziò i deputati per il loro

« instancabile zelo, intelligenza, attività e premura per l’ interesse del Luogo Pio a carico del quale è stata detta fonte costruita nel disimpegno del gravissimo mandato, essi si erano resi meritevoli della pubblica riconoscenza e di un distinto contrassegno della pubblica soddisfazione…. ».

Il fornitore dei blocchi di marmo fu Carlo Rocchi di Carrara. Le scalinate sono di pietra fiesolana.

Le spese per l’acquedotto e la fonte come resulta dal Partito del magistrato del dì 30 dicembre 1828 – « pagate dall’Amministrazione del Monte Pio dal principio della costruzione stessa sino al presente…. sono ammontate a L. it. 19.358, soldi 6, denari 11 (L. it. 100.332,62), che tutto è saldato e solo manca a saldarsi l’ing. Giuseppe Martelli che ha diretto quest’opera, l’ha assistita e disegnata, perché sino ad ora non ha esibito il suo conto dettagliato, sebbene abbia ricevuto in acconto la somma di L.it. 266,soldi 13, denari 4 (L.it. 1064,76) ».

 È degno di rilievo il fatto che le deliberazioni sulla fonte in tanti anni furon sempre prese all’ unanimità, il che conferma che la necessità della grande opera era universalmente riconosciuta. Ricordiamo, infine, che nel Palazzo Municipale, nel vestibolo della sala del Consiglio, sono ancora conservati, non in buono stato, i bozzetti in gesso delle tre Naiadi.

 

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Nel contratto per le Ninfe stipulato con gli scultori Pampaloni e Luigi Giovannozzi si stabiliva che le tre figure muliebri dovevano essere « parcamente aggiustate di panneggiamenti  ». Ma poi parve più artistico abolire il viluppo dei veli, che se troppo lievi non bastavano a coprire le marmoree procacità, se troppo imbarazzanti guastavano l’ effetto estetico dell’armonioso gruppo. A questo proposito cade opportuna una lettera, che nel 1827 l’ing. Moggi scriveva al dott. Giovanni Pozzolini :

Dica al Sig. Auditore che sono stato a vedere il modello della nuova fonte di Empoli, e mi piace: ma non potrei convenire di fare i panneggiati alle tre Naiadi per renderle più modeste. Già si aumenta la spesa: perde grazia il gruppo, ed è cosa inopportuna, singolare ed umiliante; lo provo: inopportuna, perché rimangono situate talmente, che bisogna prender la scala per andare a vederci l’estremità del basso ventre (che è di marmo); singolare, perchè nella Galleria, in Piazza del Granduca e in tanti luoghi si trovano statue nude, in atteggiamento visibile in ogni parte, e non si pensa che possano eccitare al peccato; umiliante, perché farsi dettar la legge dai bigotti e dagli ipocriti, è vergogna, potendo rispondersi loro vittoriosamente che l’esempio loro vivo ed in carne, dà scandalo, ma non le statue di marmo, le di cui parti naturali non possono riscaldare la fantasia che ai viziosi, per i quali non vi è scandalo.

II consiglio fu ben accolto e le Ninfe poterono esser messe in mostra senza pudibondi veli.

Ebbe l’incarico di redigere le due epigrafi l’ illustre cav. Giovan Battista Zannoni, antiquario regio, che, allievo di Luigi Lanzi, fu dotto ed elegante scrittore e ricoprì la carica di direttore delle Gallerie di Firenze. Il giugno 1827 la Camera di Soprintendenza di Firenze concedeva con « graziosissima sovrana determinazione il permesso di apporre sul basamento centrale le iscrizioni latine che si possono leggere anche nella diligente raccolta del canonico Olinto Pogni ». (27)

Ad esser precisi, l’epigrafista nel secondo verso, in luogo di « Collegium canonicorum Basilicae Laurentianae », aveva scritto  «  Collegium presbyterorum ad Laurentii », onde l’ ira, o almeno un malcelato risentimento, per il menomato ossequio alla gerarchia ecclesiastica, nei reverendissimi petti dei canonici di S. Lorenzo. Troviamo infatti fra le carte del nostro Auditore un biglietto del cav. Zannoni che raccomanda la mutazione da apportarsi all’ epigrafe:

« Così – egli aggiunge – sarà fatto quel che doveva farsi, e dato il confetto ai canonici, perché si  rifacciano la bocca divenuta amara da quel presbyterorum, male ingozzato dalla dignità canonicale  ». (28)


(27) POGNI, Le iscrizioni di Empoli (Firenze, Tip. Arcivescovile, 1910), p. 261.

(28)   Quando venne raccolta l’acqua anche dalle sorgenti di Tomba di Berto, fu posta nella fontana la seguente epigrafe dettata dal cav. avv. Ettore Chiarugi: « Sappiano i presenti ed i futuri – che a tempo del Sindaco – comm. grand’ufficiale Tenente generale Giuseppe Casuccini-Bonci – i marchesi Giuseppe e Dino Frescobaldi – Patrizi fiorentini – ed il sacerdote Giuseppe Bonardi – rettore della chiesa di Botinaccio – con atto pubblico 22 marzo 1886 – gratuitamente ed in perpetuo – cedevano al Comune di Empoli – le sorgenti di acqua potabile – in luogo detto “Tomba di Berto” – in Comune di Montespertoli – il Municipio di Empoli riconoscente ».


Di quest’ acqua, che, per il pessimo stato del condotto, viene in gran parte dispersa. fece un’ analisi chimica il farmacista Olderigo Castellani. Empoli, (Tip. Tito Guainai, 1884).

Non tutti coloro che hanno avuto occasione di accennare alla nostra fontana, si sono attenuti alla più scrupolosa precisione. È esatto, se non completo, il Reumont, quando nelle sue Tavole cronologiche e sincrone della Storia fiorentina registra all’anno 1828 la « Fontana di Empoli con sculture di Pampaloni » (1); ma meno esatti sono il Missirini stesso, quando si limita ad attribuire al Pampaloni soltanto  « l’idea di una fonte per Empoli »; il Saltini quando scrive « Le Ninfe e le belve sono opera dello scultore Luigi Pampaloni » (2); il Carocci nel ricordare la grandiosa fontana scolpita dal Giovannozzi (3); il Giglioli quando afferma opera di Ottavio Giovannozzi tutti e quattro i leoni fronteggianti la vasca, tacendo dell’altro Giovannozzi (4), e, peggio ancora, Eugenio Müntz, allorchè si abbandona a queste fantasie: «  Due fontane scolpite dal Pampaloni nel 1824 e 1831 (l’una composta di quattro leoni e di un gruppo di donne che sostengono la vasca donde esce l’ acqua) ricordano l’ impulso dato ai lavori di abbellimento od all’edilità dagli ultimi granduchi ». (5) Né dati sempre esatti, evidentemente per colpa del proto, offre al nostro proposito l’ottima Guida di monsignore dott. Gennaro Bucchi (6).


(1) Tavole cronologiche e sincrone della Storia fiorentina compilate da ALFREDO REUMONT (Firenze, Gio. Pietro Vieusseux, 1841).

(2) MISSIRINI, Memorie ecc., p. 29; SALTINI, Della vita e delle opere di G. Martelli ecc.. p. 92.

 (3) G. CAROCCI, Il Valdarno da Firenze al mare (Bergamo, Arti Grafiche, 1906), p. 78.

(4) O. H. GIGLIOLI. Empoli artistica (Firenze, Francesco Lumachi, 1906) p. 111. Il Giglioli considera le Naiadi come un’evidente imitazione del tipo Giambolognesco.

(5) E. MÜNTZ,  Florence et la Toscane (Paris, Hachette e C. , 1897). p. 85.

(6) G. BUCCHI, Guida di Empoli illustrata (Firenze, Tip. Domenicana. 1916), p.85

 


 

Noi, dato a ciascuno il suo, chiudiamo questa breve storia di « una fontana moderna che – scriveva giustamente il Giglioli – non è un’ offesa al più elementare gusto artistico come molti altri monumenti in più grandi città, pur vincolate da gloriose tradizioni » di una fontana che non è né una tinozza da bagno, né una saliera, né un grottesco fungo rovesciato, come è purtroppo dato di vedere in più importanti e rinomati centri.

La bella fontana, alla quale dettero l’ opera valentissimi  artisti, ci attesta ancora la nobile e proficua attività dei nostri avi, il loro non degenere culto per l’ arte, la loro fede nell’avvenire del modesto e industre paese natale.

Intorno alla bianca fonte aleggiano alte memorie. Qui Farinata degli Uberti, a cui la piazza è intitolata, domò la rabbia ghibellina, disfrenata dopo

lo strazio e ‘l grande scempio

che fece l’Arbia colorata in rosso,

e con rozza parlata difese a viso aperto la sua Fiorenza; qui Francesco Ferrucci, Commissario della Repubblica, difese strenuamente e ravvivò le sorti dell’ agonizzante Marzocco; qui, rinnovati i destini d’Italia, Giuseppe Garibaldi additò al popolo il nostro capo, Roma.

« In un’oscura borgata della Toscana – scrisse Francis Wey – si trovano i più drammatici ricordi di Firenze; ed in una piccola piazza si scorgono i maestri del Rinascimento, al suo sorgere; e Dante, che fu loro amico, descrive egli stesso nella sua divina epopea i fatti e gli eroi, che oprarono su questa scena ».

 

Empoli, gennaio 1920

Emilio Mancini