Emilio Mancini fra gli empolesi
di
Giuliano Lastraioli
Testo dell’intervento di Giuliano Lastraioli al Convegno su Emilio Mancini,
tenutosi presso
la Sala Grande della Misericordia di Empoli, il 12 febbraio 2016
Confesso sùbito, a scanso di postume recriminazioni, di essere stato pesantemente tributario di Emilio Mancini quando negli anni Cinquanta del secolo scorso ero ancora un ragazzino che si avventurava temerariamente nella stampa quotidiana.
Sotto la guida oculata di Ugo Campori gestivo allora la pagina empolese de LA NAZIONE, tuttora epurata come “La Nazione italiana”-. e non era punto facile riempire tutti i giorni il foglio di notizie o di argomenti godibili, che spesso latitavano.
Conoscendo la produzione storico-letteraria di Emilio Mancini e ben tosto innamorato del suo felice excursus sulla storia dei giornali empolesi, lo saccheggiai più e più volte, scopiazzando e plagiando quel sàpido libretto che riuniva articoli già comparsi sul “Piccolo” e che meriterebbe oggi una riedizione, trattandosi peraltro dell’unico saggio consistente del Nostro autore fra tanta colluvie di frammentarie spigolature (non per nulla Emilio usava lo pseudonimo di Spigolino).
Ben per questo, in altra circostanza (quando uscì il catalogo dei periodici locali a cura di Mauro Guerrini e di Fortunato Morelli), parlai di “inchiostro ritrovato”. Quantunque le vicissitudini di carriera professionale e di situazione familiare abbiano costretto Emilio Mancini a lasciare il natio loco per lunghi periodi, si può però affermare che Empoli e gli empolesi furono e rimasero sempre il suo baricentro.
Così come le frequentazioni, i sodalizi, le amicizie e gli affetti rimasero sempre ancorati alla realtà empolese.
Realtà che, alla nascita di Emilio, era in piena evoluzione, quasi che, alle pulsioni sanfediste di inizio Ottocento e ai moti reazionari del ’49, sparito il navicello e trionfando il vapore, la società locale andasse sostituendo un nuovo corso di vera e propria mutazione genetica.
Alla nascita di Emilio la Empoli di Luigi Busoni, di Michele del Bianco, di Giovanni Marchetti, dei fratelli Salvagnoli di Niccolò Lami e del Capoquadri, ed anche quella – più resistente – di Cosimo Ridolfi e di Niccolò Vannucci, suo adepto, era ormai fuori quota.
Scomparsi il Mariambini e Amadeo Del Vivo, che alla loro epoca avevano fatto il bello e il brutto tempo, i loro tardi epigoni si agitavano in nuove intraprese anche industriali, perfettamente integrati nel regno unitario.
La grossa borghesia delle “dieci famiglie” faceva i suoi affari e lentamente progrediva; le campagne vivevano ancora in pieno regime mezzadrile; i ceti mercantili e professionali di una terra non assurta a città governavano il paese, la chieresia se ne stava nascosta dietro il “non expedit”, pur sempre attenta a influire nelle elezioni amministrative che solitamente vedevano vittoriosa la cosiddetta “malva” di stampo clericaloide rispetto a una pur petulante frazione borghese dalle connotazioni massoniche e radicali, se non proprio progressiste.
Il nascente socialismo se la batteva in quel tempo con l’anarchia, che faceva proseliti fra i più diseredati (esemplare il caso importantissimo di Oreste Ristori) ,
La nuova temperie politico-culturale seguita alla fine (traumatica) dell’epoca crispina e l’avvento dell’egemonia giolittiana recarono anche a Empoli un notevole revival rispetto alle cocenti delusioni del quarantennio postrisorgimentale.
Le fonti principali per conoscere l’ambiente in cui crebbe e fiorì Emilio Mancini sono i ricordi di Corrado Masi, le ricerche (seppure unidirezionali) di Libertario Guerrini e soprattutto la bella tesi di laurea di Marco Mainardi, impreziosita da un ricco corredo iconografico cui collaborai attivamente.
Ai primordi del Novecento la scena empolese era dominata dalla figura di Renato Fucini, da tempo stanziato in città e riconciliato con una popolazione che in passato aveva sempre fatto guerra alla sua famiglia. Ricordiamo l’epigramma di babbo David:
“Ma in quell’Empoli! Il caso è proprio strano: o muore un ciuco o nasce un sagrestano. “
L’autore dei sonetti in vernacolo pisano e delle “Veglie di Neri”, universalmente omaggiato come “venerato maestro”, era regolarmente frequentato dal medico Fabio Pandolfi e dal più giovane professore di lettere Vittorio Fabiani. Le loro passeggiate in città e nei dintorni erano quasi un rito. Sui loro conversari è uscito addirittura un volume (“A spasso col Fucini”).
Il dottor Pandolfi, conosciuto come “Pappine”, era persona mite e bonaria, spesso oggetto di salaci baie da parte del pungente e coltissimo professor Fabiani, che ben presto si fece conoscere e apprezzare come il punto fermo, il corifeo, della cultura empolese.
Il suo prestigio era meritato: la sua monografia su Ippolito Neri e la sua variegata produzione storico-letteraria ne facevano quasi un nume tutelare per chiunque si avvicinasse a questo genere di studi.
La sua solida erudizione, il suo “sense of humour”, il suo acume critico, la sua verve satirica ne facevano la colonna portante del mondo intellettuale empolese, ristretto nelle due farmacie Chiarugi e Castellani. Insieme a Luigi Mannucci, altro professorino, il Fabiani aveva pubblicato anche un libro di bozzetti di stampo squisitamente fuciniano, “Il viavai”, testo che oggi è però praticamente sconosciuto e dimenticato, non avendo mai avuto ristampe o riedizioni.
Attorno a Vittorio Fabiani si coagulò un gruppo ben affiatato di giovani intellettuali, quasi tutti di estrazione borghese, che nel 1906 dettero vita a un settimanale di rigorosa osservanza “costituzionale”, inteso soprattutto ad oppugnare il verbo socialista già da tempo propugnato in Empoli dal battagliero confratello “Vita nuova”.
Per 22 anni il “Piccolo corriere del Valdarno e della Valdelsa”, o meglio “il Piccolo” tout court fu quasi l’organo ufficiale dei notabili empolesi e riuscì a reggere imperterrito fino al 1928, pur fra sbalzi e qualche caduta, resistendo anche nei momenti più turbolenti e drammatici sin quando la stampa locale fu contingentata dall’imperante regime per fare strada, infine, a quel fiorentino “Bargello” che fu poi il semenzaio delle migliori penne del secondo dopoguerra.
Emilio Mancini, fresco di laurea in lettere, fece ben presto parte dello staff redazionale del “Piccolo”, non rifuggendo dalle schermaglie polemiche col campo avverso, ma collaborando soprattutto con contributi di storia empolese, nel cui àmbito prediligeva le ricerche sul periodo risorgimentale. Non di rado elementi del gruppo empolese collaboravano al fiorentino “Marzocco” dei fratelli Orvieto e ad altre rassegne di caratura nazionale.
La giovane Empoli annoverava, sotto l’influsso dell’onnipresente Fabiani, una vera pepiniera di cervelli. E in quella variegata accolta Emilio si trovò sempre a suo perfetto agio, nonostante la diaspora in giro per l’Italia e per il mondo, determinata a varie riprese per necessità di carriera, per esigenze di vita familiare o per gli eventi bellici e politici.
I contatti furono sempre mantenuti epistolarmente e mai, nel corso degli anni, il gruppo si sciolse. Fabiani fungeva da coagulo. Corrado Masi ben presto emigrò in Tunisia, dove per anni fu avviato dal Ministero degli Esteri a dirigere di fatto il quotidiano di Tunisi in lingua italiana “l’Unione”, allora in forte urto contro l’imperialismo francese nel Mediterraneo.
Sulle innovative riviste fiorentine di Papini e di Prezzolini, pur lette avidamente a Empoli, prevaleva nel primo decennio del novecento la figura del montelupino Enrico Corradini, che predicava il verbo nazionalista sul suo giornale “Il Regno” e che a Empoli aveva trovato amichevole riscontro in quell’Alberto Castellani, figlio strampalato del farmacista Olderigo, già reduce da un’esperienza universitaria in Germania e cultore autorevole di lingue e letterature dell’Estremo Oriente, pur senza aver conseguito alcuna laurea.
Forte glottologo e insigne sinologo, il Castellani guadagnò per chiara fama, sostenuto dal senatore Gentile e dal professor Pavolini, una cattedra universitaria a Firenze, ma morì ancor giovane nel ’34, si disse allora per una scalmàna dovuta ad una esibizione di nuoto fuori stagione nel burrascoso mare di Livorno.
Del Castellani si ricordano anche le esercitazioni poetiche, ma il suo prestigio è riposto soprattutto nella sua edizione sansoniana di Lao-Tse.
La politica spicciola, sul “Piccolo”, era materia lasciata ai vari Lami, Chiarini, Marzi e Pandolfi e non di rado il giornale andava in contraddizione con se stesso per gli ondeggiamenti fra sonniniani e giolittiani, sempre però in linea con l’assetto costituzionale monarchico.
Ai tempi della guerra di Libia, nel 1911-12, il “Piccolo” sostenne l’impresa in polemica feroce con un battagliero foglio sorto in Empoli sulle ceneri della “Vita Nuova” (momentaneamente abbuiata). Era “L’Arno”, fondato da Nino Bezzi e da Paolo Emilio Del Vivo, il primo repubblicano-massone, il secondo dichiaratamente socialista.
Al pacifismo libico de “L’ Arno” fece contrasto clamoroso la scelta di Bezzi e Del Vivo nel 1914, quando, optando fra Triplice e Intesa, il Bezzi andò volontario nella legione garibaldina e il Del Vivo si fece uccidere sull’Isonzo come interventista intervenuto. Ove si dimostra che, anche dalle nostre parti, le capriole politiche sono sempre state all’ordine del giorno.
Durante la neutralità “il Piccolo” fu assai cauto nel professare scelte di campo, ma ben presto la situazione fu chiara e tutti capirono dove il buon Salandra sarebbe andato a parare. Nel ’14 era apparso in Empoli, nel frattempo, anche un foglio futurista ad opera del pittore Mario Mazzinghi, amico fraterno di Emilio Mancini, che con lui collaborò in più occasioni.
L’ “E’ permesso?!”, per la sulfurea e iconoclasta novità dei temi affrontati, provocò in Empoli un vero cataclisma, con tanto di duello cavalleresco finito a tarallucci e vino.
Scoppiata la grande guerra Emilio non fu mobilitato immediatamente. Soldato riformato e poi rivedibile, fu raschiato nel 1917 ed entrò in campagna proprio nel giorno di Caporetto, il 24 ottobre. Coincidenza più funesta non gli poteva capitare.
Si ritrovò sottotenente dell’artiglieria da fortezza ad onta della sua laurea in lettere alla stagionata età di 34 anni (quando i suoi coetanei erano ormai capitani o maggiori se non morti ammazzati) ed ebbe comunque modo di meritare una croce di guerra partecipando alle azioni difensive sul monte Tomba con i francesi e alle successive battaglie vittoriose sul Piave.
Il ritorno alla normalità fu duro e proprio di normalità non si poteva ormai più parlare perché il mondo era cambiato. Il comune di Empoli stava passando in mano ai socialisti per la prima volta. “Il Masini è deputato e l’Incontri si è purgato”… Erano finiti i bei tempi del patto Gentiloni e del predominio borghese, la catastrofe del 1° marzo 1921 si approssimava con tutti gli stràscichi penosi che ne seguirono.
Renato Fucini era passato a miglior vita e andava convenientemente commemorato. Al suo posto si inseriva, nella scala gerarchica della intellettualità empolese, l’avvocato Giovanni Boeri, patron di Poggio al Pino e anch’egli sodale fisso di Vittorio Fabiani.
Restava immutata l’amicizia con Corrado Masi e con Tomaso Fracassini, quest’ultimo personaggio di primissimo piano nel campo della ricerca storica, che meriterebbe una particolare attenzione e la cui figura è scomparsa dal consueto “casting” empolese.
Costui, dopo una lite col manesco gerarchetto fascista Sergio Codeluppi, si era trasferito in quel di Prato alla guida amministrativa di quell’ospedale, ma dalla sua nuova posizione continuò a collaborare col Mancini soprattutto nella cucina della Miscellanea Storica della Valdelsa, che poi – negli anni Trenta – diventò un vero feudo del gruppo empolese, che occupò quasi militarmente Castelfiorentino col podestà Pelleschi e col già rammentato Giovanni Boeri, assurto a presidente della Società Storica della Valdelsa.
Si può infine affermare che il tramonto della “giovane Empoli” fu indolore, quasi naturale nonostante gli scombussolamenti della seconda guerra mondiale.
Ne è rimasto un flebile ricordo che il nostro incontro di quest’oggi potrà valere a rinnovellare.
Giuliano Lastraioli
Empoli, 12 febbraio 2016
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