Intorno a Ferruccio Busoni
Miscellanea della Valdelsa, n. 119/120, pp. 125-127. Anno 1933
di Emilio Mancini
Ferruccio Busoni è all’ordine del giorno. Ci piace spigolare qualche notizia su di lui apparsa in recenti pubblicazioni.
Francesco Monotti, per esempio, traccia un Ricordo di Ferruccio Busoni sulla rassegna milanese Comoedia (15 ott-15 nov.1932). Ivi, in un’intervista coll’insigne pianista polacco Zadora, discepolo del Busoni, è rievocata la figura del Maestro empolese, popolarissimo a Berlino per il suo famoso panciotto multicolore, il suo umore brioso, la sua passione per il bigliardo e quella pei bei libri.
Del brillante articolo illustrato ci limitiamo a riportare la fine, in cui Zadora così conclude i suoi ricordi: Busoni, morto nel 1924, sessantenne appena, è rimasto sino agli ultimi istanti della sua vita indiscutibilmente e solamente italiano, con un affetto e una nostalgia per il suo paese che forse solo i connazionali che l’avvicinavano potevano esattamente misurare. So che il suo lunghissimo soggiorno in Germania gli ha in parte nociuto presso certi italiani d’Italia, che han creduto vedere in lui un transfuga, un rinunciatario. Quale errore!
L’arte segue certe sue necessità, certe sue correnti ideali che il voler comprimere sarebbe come il voler uccidere. Busoni trovò in Germania e specialmente a Berlino, quel clima spirituale, quel calore di consensi, quelle possibilità di vita, senza le quali probabilmente egli non sarebbe mai diventato l’impareggiabile Maestro che tutti ricordiamo, non avrebbe mai potuto onorare in questo modo il genio del suo paese e della sua razza.
È vero. Busoni non era chauviniste.
Si divertiva anzi a canzonare il patriottismo musicale e comico di un suo vecchio educatore, che gli aveva insegnato a credere che le « Nozze di Figaro » fossero state rubate dal « Matrimonio segreto » di Cimarosa, che gli ultimi episodi del « Faust » altro non fossero che imitazioni della « Divina Commedia », che il meglio di Bach fossero composizioni all’italiana, e che nessun straniero avrebbe mai potuto battere il record di Rossini, che aveva scritto il « Barbiere » in 21 giorni.
Ma, esagerazioni a parte, guai poi a toccargliele quelle opere sacre al genio del suo popolo L’Italia ha dato Busoni al mondo: è un fatto che tutti le riconoscono, anche se vari lieviti hanno operato in lui, han contribuito a produrre in lui quel raro miracolo che è l’arte. L’arte genera altra arte, la bellezza chiama la bellezza. Questa era l’idea fissa del maestro. Io credo che fra due grandi civiltà quali l’italiana e la tedesca, Busoni non può rappresentare che un altro ponte d’ unione, mai un germe di discordia.
Un lavoro utilissimo per la fama del Nostro, ha compiuto Alfredo Bonaccorsi con la sua Bibliografia di F. Busoni (nella Rivista Nazionale di Musica, 15-81 marzo 1932). E’ un accuratissimo elenco preceduto da questa nota assai benevola per l’opera nostra modesta e devota:
« Di Ferruccio Busoni, da Empoli, come soleva dichiararsi non senza un po’ di tenerezza nostalgica per la piccola Patria, resta e resterà perennemente il ricordo per l’altissima fama da lui conseguita come pianista di insuperabile potenza interpretativa, come scrittore di non comune acutezza, di teorica e di critica musicale, come compositore di nobile ispirazione e di solida dottrina.
La città di Empoli, legittimamente orgogliosa di avergli dato i natali, non ha mancato di rendere alla sua memoria vibranti testimonianze di fervida devozione, ed il culto di Lui — perché si tratta veramente di culto — è tenuto vivo da una piccola ma scelta schiera di intellettuali, che fanno capo alla Miscellanea Storica della Valdelsa, diretta dall’egregio prof. dott. Emilio Mancini, e alcuni dei quali ebbero col Maestro indimenticabile rapporti di rispettosa amicizia…»
Parla pure del musicista empolese, nella Nuova Antologia del 15 aprile 1932, Fernando Liuzzi in un articolo intitolato « Casella e il teatro musicale » :
« Otto anni or sono, ricordando in una rivista milanese (L’Esame) quale miraggio musicale avesse arriso, per il teatro, al pensiero di Ferruccio Busoni, proprio allora scomparso, auguravamo potesse avverarsi il sogno di quel nobile e puro artista: sogno d’una musica tutta accentrata in se stessa, tutta viva ne’ suoi elementi — sentimento, invenzione, forma, struttura — che conferisse, avvolgendola e compenetrandola, suprema realtà alla suprema illusione. Al Busoni, forse per eccesso di macerazione culturale, non fu dato raggiungere l’intento nè con Arlecchino nè con Turandot ».
Ma la via verso l’auspicato rinnovamento è quella tracciata da Ferruccio Busoni.
Il fascicolo del giugno del 1932 della Neue Rundschau pubblicava alcune delle molte lettere inedite che il Busoni scrisse da Bologna alla sua fedele compagna Gerda Sjöstrand, nell’autunno del 1913, quando il grande pianista empolese dirigeva il Liceo Musicale di quella città. Di queste lettere interessantissime offriva un saggio il Resto del Carlino del 5 giugno 1932.
Nel Marzocco del 30 ott. 1932, per riparare ad una lacuna del recente volumetto di L. M. De Bernardis, La Leggenda di Turandot, Lauro Gigli ha ricordato opportunamente che anche F. Busoni, « attratto dal malioso soggetto di Turandot, scrisse pagine magistrali, perfette », componendo nel 1905 un’opera ispirata dalla fiaba scenica di Carlo Gozzi.
Non cade in tale omissione Letterio Di Francia che, nel suo lavoro: La leggenda di Turandot nella novellistica e nel teatro (Trieste, C. E. I. N. I. 1932), analizza convenientemente il libretto musicato dal Busoni.
Nello splendido fascicolo dedicato al « Maggio musicale fiorentino », l’illustrazione Toscana e dell’Etruria (XI, 1) presenta, adorno di rare incisioni, un entusiastico ed affettuoso « Ricordo di F. Busoni da Empoli», dovuto ad un illustre musicologo, Guido M. Gatti.
Vi abbiamo letto con piacere che Edward J. Dent con scrupolo di storico, senso d’arte e fedeltà d’amico ha pubblicata l’attesa biografia del Busoni (Londra, Oxford University Press, Humphrey Milford, 1933), opera che anche noi auguriamo di veder presto tradotta nella nostra lingua, perché integra in modo, si può dire, definitivo i dotti lavori del Leichtentritt, della Selden-Goth e del Nadel.
Lamenta l’egregio articolista che l’arte del Nostro sia tenuta in maggior onore all’estero che fra noi: «d’esecuzioni, nemmeno a parlarne… » Pure attenuando la troppo recisa negazione, pur ammettendo che alti riconoscimenti, anche ufficiali, non sono mancati, dobbiamo convenire col Gatti che in Italia si è fatto e si fa troppo poco per divulgare la musica busoniana.
Per quanto tempo si dovrà dire che come vivo Busoni, così Lui morto la patria si è mostrata restia a tributare l’ammirazione meritata, non diciamo al suo nome, ma all’opera sua, in cui vive immortale? Questo italiano invincibilmente latino in terra teutonica, dopo l’ultimo dì, è ancora esule dalla sua patria.
Nobilissimo pensiero, quindi, e degno del più vivo plauso è stato quello che ha ispirato il Comitato del « Maggio musicale fiorentino » di commemorare il grande musicista toscano in quella eletta festa dell’arte dei suoni, e di eseguire per la prima volta in Italia l’opera sua universalmente ritenuta la maggiore: il Concerto per pianoforte, orchestra e cori.
Prenderà parte all’esecuzione il pianista Egon Petri, che è stimato il più valente allievo del Busoni.
All’esule immeritevole si aprono le vie del ritorno?
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