Empoli e Cosimo Ridolfi

Dal Piccolo, 3 agosto 1924

 

Diamo, come promettemmo, il testo preciso del discorso pronunciato dal prof. dott. Emilio Mancini

nella sala dei Gelosi Impazienti per la circostanza della solenne premiazione alla Scuola dei Coloni.

 

Non una compassata biografia vengo oggi a tessere dinanzi a voi, egregi signori, non un elogio solenne imposto dalla fredda celebrazione di un rito commemorativo, bensì a suscitare ricordi grati e onorevoli quando Empoli nostra, dentro la cerchia delle sue mura ferrucciane stava in pace modesta e operosa; ad evocare un’alta e nobilissima figura che può ancora, con lo splendore dell’esempio, illuminare ai buoni ed ai volenterosi la via da percorrere nella travagliata società moderna.

Veramente pianta di buon seme fu Cosimo Ridolfi e all’ombra sua è dolce riposarsi e rasserenarsi per poi riprendere il cammino, rinfrancati e spronati.

Se a dire degnamente di un illustre agronomo dinanzi ad agricoltori esperti e a cultori delle discipline agrarie fu scelto un misero profano la colpa non è mia, se non in quanto ho ceduto alla fine alla cortese insistenza dell’egregio cav. Enrico Niccoli, solerte animatore di questa scuola, nella quale egli ama vedere rinnovata la bella tradizione della nostra terra, seguite le gloriose orme di Cosimo Ridolfi che, « marchese e professore di università  – come dettò il Salvagnoli sotto il busto scolpito dal Santarelli – fu il primo ad insegnare qui ai contadini l’agricoltura, congiungendo tutti i gradi civili nella buona comunione della scienza. »

Nella nostra biblioteca infatti, negli anni 1857 58, per l’invito dell’Accademia di Scienze che lo aveva eletto dodici anni prima suo presidente onorario, il Ridolfi dettò le sue lezioni giustamente poi dette auree.

Il nobile uomo, vivamente pregato dal consigliere di Stato Don Neri Corsini, aveva coperto dal giugno 1840 al gennaio del ‘46 la carica di nostro Gonfaloniere, aveva istituita la Cassa di Risparmio e la Compagnia di Misericordia; nel novembre del 44, durante una tremenda inondazione, aveva, senza badare ai disagi, portato soccorsi alle popolazioni rurali; aveva promosso e presieduto le Società per i ponti sull’Arno di Empoli, di bocca d’Elsa e d’Usciana, preparato il terreno al sorgere dell’Asilo infantile, ampliate le scuole, la biblioteca, donato le macchine e gli strumenti per il Gabinetto di Fisica, ingrandito il paese con la demolizione delle antiche mura.

Egli, che era stato maestro del Granduca, direttore della Zecca, deputato e ministro, prediligeva questo paese di provincia ed aveva una fede sicura nel suo avvenire:

« Terra insigne – così scriveva in una lettera dell’ 11 dicembre 1843 – nata per essere grande e che non ha d’uopo per tale effetto che di pace, di concordia, di buone istituzioni, all’ombra delle quali divenir floridissima. »

Nella vicina fattoria di Bibbiani sua madre, che era di casa Frescobaldi, gli insegnò l’amore per l’agricoltura, affezionandolo alla campagna e fornendogli denari per migliorare ed abbellire la vasta tenuta.

E la campagna rimase il costante amore del Ridolfi. Quando nel ‘51 l’Istituto Agrario di Pisa, da lui  fondato, fu soppresso dal governo di Leopoldo, ritornato con l’aiuto delle baionette austriache, quando, sei mesi dopo, fu abolito lo Statuto, il marchese Cosimo cercò balsamo alle sue amarezze di scienziato e di cittadino nella coltura dei campi, nell’industria madre, che come gli affermava, nutre i popoli, regge i governi ed è fondamento di civiltà.

Tornò al suo diletto Colle di Meleto, dove sin dal 1834 per virtù sua era incominciata un’era nuova per l’agricoltura e donde si irradiarono i metodi che, consertando scienza e pratica, apersero più ampi orizzonti e promossero rapidi progressi nelle coltivazioni.

Là, dove un tempo era stata fervida l’opera industre dell’ingegnoso fabbro Passaponti, seguito a Castelfiorentino da Benedetto Ciapetti, infaticabile nel fabbricare strumenti agrari secondo i dettami della nuova scuola, aveva ripreso un corso di lezioni ad alcuni fattori e possidenti delle campagne vicine, quando andarono a sollecitarlo gli Accademici empolesi perché in più popoloso centro volesse continuare il suo apostolato, che redimeva l’agricoltura dal secolare empirismo e la innalzava al grado di scienza.

Il Ridolfi consentì a dare in Empoli un corso di lezioni domenicali nel modo più semplice e popolare che gli riuscisse possibile. Le lezioni durarono 18 mesi, dal 19 aprile 1857 al 31 ottobre 1858, e furono cinquanta. Vennero raccolte stenograficamente e poi stampate in due volumi per conto dell’ Accademia di Scienze, la quale per generosa concessione dell’autore ne ritrasse l’utile di 500 scudi, da erogarsi a beneficio dell’agricoltura.

Non badò ad inclemenza di stagioni né a sacrifizi l’illustre Maestro. Grande era il numero di possidenti, di fattori, di contadini, di operai e di dotti convenuti tutti ad ascoltare gli aurei precetti, a seguire gli interessanti esperimenti.

Erano fra questi ascoltatori un Marchese Gino Capponi, un abate Raffaello Lambruschini, un baronetto Ricasoli, un Ubaldino Peruzzi, un Vincenzo Salvagnoli, un Lorenzo Neri, antesignani di quel movimento patriottico che prima ancora che dagli stranieri voleva liberare il nostro popolo dalla più odiosa delle servitù, quella della miseria e dell’ignoranza, scendendo fino a lui per porgergli la mano ed aiutarlo a salire sulla scala faticosa del progresso materiale, morale e civile.

E il non averla sempre seguita questa scuola di illuminata previdenza ha prodotto più di una volta, in alto e in basso, frutti di cenere e tosco.

Ma torniamo alle Lezioni orali. La prima edizione fu subito esaurita, come pure la seconda (1861), che l’autore volle dedicare alla nostra Accademia ed accrebbe e migliorò, tenendo presente non solo la Toscana ma tutta l’Italia. Una terza edizione ne curarono più tardi i figli (1868), anch’essa divenuta rarissima e tenuta in gran pregio.

« Quelle lezioni di viva voce – scrisse in proposito il Lambruschini – che uscivano dalla sua bocca come acqua di limpida vena… restano non ultimo documento del suo sapere, del suo lucido intelletto e della sua facile esposizione. »

Io non indugerò ad analizzarle minutamente; già fin dal 1860 ne esaminava il contenuto con dottrina e diligenza il dottor Andrea Pandolfi, inaugurandosi il busto del Ridolfi fatto scolpire dall’Accademia. Dirò solo che due elementi considera come fondamento dei suoi precetti, cioè l’istruzione e l’anticipazione dei capitali.

Poi ogni aspetto dell’arte agricola trova la sua trattazione: il clima, le vicende atmosferiche, la terra e il terriccio, i concimi e gli ingrassi, i sovesci, gli avvicendamenti, il maggese ed il riposo, gli arnesi, i prati, i foraggi, il bestiame, la coltura delle leguminose, dei cereali, della vite, dell’olivo, del gelso, l’allevamento dei bachi da seta e delle api, gli alberi da frutta, la direzione delle acque in collina, l’amministrazione agraria, niente insomma vi è trascurato, per terminare con un discorso sulle relazioni fra proprietari e contadini e intorno alle condizioni del progresso agrario nella mezzadria.

Così la vasta trattazione abbraccia armonicamente la grande arte vitale che ha per officina la terra e per tetto il cielo. Ad esso dedicò le cure anche dei suoi estremi anni, dopo la parentesi politica del 1859 e ‘60, assumendo, morto il Vieusseux, la direzione del Giornale Agrario Toscano, per essa prescelse l’umile chiesetta di Santa Croce a Meleto per dormirvi l’ultimo sonno, sotto l’iscrizione che egli volle semplice ed italiana, a ricordarlo alla pietà ed al  suffragio dei credenti, presso la salma del suo fido Agostino Testaferrata, « villico sibi fructuosissimo summaeque abstinentiae », il compagno suo di lavoro e di gloria.

« Cosimo Ridolfi – così il Tommaseo – seppe vivere campagnolo e Marchese, riconoscente al suo fattore e di fattori maestro »  ed il Carducci (Op. V, 522) lo disse « uomo che sempre, in tutta la sua laboriosa vita di cittadino e di scienziato volle e cercò il bene del suo paese. »

Dopo quasi 60 anni dalla sua scomparsa egli ci benefica ancora con la luce del suo esempio non perituro, esempio che suona rimprovero agli infingardi che non sentono la sveglia dei tempi, come suona conforto e plauso a voi, valenti e benemeriti patrocinatori della Scuola dei Contadini, ed a voi, bravi giovani che oggi cogliete il frutto della vostra intelligenza, del vostro amore all’arte che fa della vecchia terra l’inesausta nutrice dell’uomo

Emilio Mancini