Fra Sisto da Pisa

 

RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

da: Miscellanea Storica della Valdelsa,  Anno XXVIII (fasc. 1-2), n. 80 – 81, Anno 1920

Direttore Gennaro Bucchi

 

 

SISTO DA PISA dei Minori Cappuccini, Archivista Provinciale, Membro della nobile Accademia degli Euteleti in San Miniato, L’antico Santuario della Madonna del Pozzo in Empoli, Storia e documenti con 15 illustrazioni, Firenze, Stab. tip. Mealli e Stianti, 1920, pp. XII-204-LX.

 

Su queste pagine, che sotto il titolo L’antico Santuario della Madonna del Pozzo in Empoli ci presenta l’eruditissimo P. Sisto da Pisa, mette conto d’intrattenersi, non meno per desiderio d’apprendere cose nuove che per diletto. Il volume è ricco d’illustrazioni e si abbella d’una copertina in colori su disegno del prof. Lorenzo Guazzini: dove, con felice fantasia e con tocchi d’alata leggerezza, sono rappresentati – secondo la pia leggenda – l’incendio dell’Albergo della Cervia e la folla dei fedeli accorsi ad ammirare il portento del tabernacolo rimasto illeso tra le fiamme.

Ad accogliere il tabernacolo fu inalzato – com’è risaputo – il Santuario del Pozzo, di cui nel volume si discorre con singolar competenza tanto che nulla io credo sia stato omesso del necessario ad illustrarlo, sia per ciò che concerne l’edificio, sia per ciò che riguarda la Ven. Compagnia del Suffragio eretta canonicamente nel venusto tempietto.

« Chi, per la sola Firenze, e tanto più per la Toscana, facesse la storia dei pubblici tabernacoli….. si troverebbe d’aver come riassommata la storia dell’arte » scrisse CESARE GUASTI (La Rosa d’ogni mese, n. 3, 1865, p. 85): il P. Sisto da Pisa riassomma, a così dire, la cronistoria empolese nell’ambito di una particolareggiata narrazione, di cui fa centro il sacello del Pozzo.

Certo, nel volume del Nostro, c’è una parte che per lo storico ha un interesse assai relativo, per non dir nullo; ed è quella in cui l’Autore, che è uomo di chiesa, sapendo di rivolgersi ad una cerchia di lettori più ampia che non il pusillus grex degl’iniziati alle storiche discipline, divaga in considerazioni religiose e morali, e, di quando in quando, in concioni parenetiche.

Non nego che in questa parte gli sia piaciuto abundare piuttosto che deficere: ma ciò non impedisce ch’egli, al momento opportuno, senza permettere che l’oratore o l’artista vinca la mano al severo compulsatore di documenti, ritrovi se stesso e ripigli, con la sicurezza che gli è propria, la via maestra.

Il P. Sisto – ricordiamolo pur sempre lo scrittore coscienzioso della Storia dei Cappuccini toscani – di un’opera, cioè, che non esito dir poderosa – e l’ irreprensibile dichiaratore di quel mannello di Lettere inedite di Santa Caterina de’ Ricci, venuto, per gli eleganti tipi del Barbèra, ad aggiungersi alla silloge, che si credette definitiva,

del Guasti. Con uomini di tanta dottrina, serietà e probità sappiamo di poter dire liberamente la nostra modesta opinione anche se, per avventura, discorde dalla loro.

E intanto – per isgombrare il terreno da quel che può parere quisquilia – poiché siamo tuttora al frontispizio del libro, mi permetto di suggerire al Da Pisa, per una eventuale ristampa, il cangiamento del testo poetico da lui prescelto. Quei versi del Pellico, non c’è stomaco di struzzo che possa digerirli.

Già, pacifico che il poeta de Le Processioni (V’amo, o Processioni, v’amo tutte ecc.) non vale davvero il prosatore de Le mie prigioni. Nelle liriche il Pellico, come l’ Omero del verso oraziano, rimane buono, se volete; anzi, troppo buono: ma non si contenta di quandoque dormitare, e preferisce dormir sempre la grossa.

Ci fu chi, trattando delle poesie religiose di lui, parlò di anemia (cfr. Silvio Pellico di E. PANZACCHI, in Nuova Antologia, 10 agosto, 1889, p. 418), e giustamente: ché sono scarnite ed anemiche per quanto, ad es., quelle del Manzoni hanno di sangue e di polpa. Egli stesso, d’altronde, confessava candidamente di non possedere « l’ energico inno possente del Manzoni » ma s’ illudeva di parlare agli uomini, se non

«  con l’alto carme d’ Isaia », almeno con « la rozza parola di Amos  » (cfr. Il Poeta).

Mera illusione: ai rudi, schietti ed efficaci accenti del profeta popolare mal si potevano comparare le sbrosce del pio Saluzzese. Orbene, come il Da Pisa (pp. 31, 92), nutrito di soda cultura patristica, ragiona da par suo, e con acume, oserei dire, agostiniano, di Maria « pozzo delle acque vive »,  « pozzo murato con le pietre di cento e mille virtù ecc. » (si sa che dal pozzo presso l’edicola venne al tempietto quel nome che anche oggi, nell’ uso popolare, si alterna con l’altro di « Madonna di fuori » cioè a dire, « fuori delle vecchie mura » così, con quanto più opportuno riferimento non avrebbe decorato il frontispizio delle alte parole di DANTE alla Vergine:

. . . . . giuso in tra mortali

se’ di speranza fontana vivace!

Quisquilie? Questione di gusto? Ebbene, passiamo ad altro.

Il P. Sisto si piace di ritornare sulla etimologia del nome: Empoli. La questione è vecchia e spinosa: forse, insolubile. Il P. Sisto conosce in proposito la opinione dell’ANONIMO scrittore della Storia della presa di Empoli, riportata dal LAMI nella prima parte dell’Hodoeporicon, ed è pienamente informato della disquisizione del Lami stesso (Prefaz., op. cit.) e delle fantasticherie di GIOVANNI FABBRONI (Derivazione e cultura degli antichi abitatori d’Italia ecc.).

Tra le varie ipotesi accampate intorno alla origine  di tal nome, l’Autore (pag. III, in Note e documenti) si ripromette che non sia per dispiacere neppur la sua.

E con un ragionamento sottile ed acuto, non c’è che dire, anche se non completamente persuasivo, spiega la forma Empoli come un detorcimento, per forme intermedie, da Imperium, nel senso che la voce ha pure in CESARE (De bello civili, III, 32) di « posto del Comando », e più propriamente, nel nostro caso, « luogo dove istanziava » il Comando delle centurie provinciali.

Il Da Pisa è dunque l’ultimo, in ordine cronologico, di coloro che hanno affacciato una nuova proposta nella vexata quaestio del nome di Empoli.

Egli mostra, per altro, di non conoscere – o io m’ inganno – quello che SILVIO PIERI scriveva nella Toponomastica della Valle dell’Arno (Roma, Tip. della R. Accad. dei Lincei, 1919; cfr. il capitolo nono: Nomi locali di ragione oscura  od incerta, a pag. 374): Empoli, com., Firenze. Fa pensare a Empulum, che fu nella campagna di Tivoli (Livio, VII, 18). Ma se di così vetusta origine, il trisillabo si sarebbe probabilmente accorciato con l’ettlissi della vocale penultima e avremmo *Empi.

Occorre anche un germ. Impo (Bruckn. 270), di cui potrebbe Empoli continuar 1a solita forma diminutiva. Né conosce – a quel che pare l’ immediato suo predecessore nella difficile e, direi quasi, disperata impresa: il comm. dott. Giuliano Vanghetti.

Il nostro illustre amico e concittadino, l’ideatore geniale di quel sistema di plastica cinematica per cui s’è reso benemerito della scienza e dell’ umanità, trova modo, nelle horae subsecivae, di mostrare anche in altri campi rara sottigliezza di mente.

In un Contributo alla etimologia del nome di Empoli (cfr. Il Piccolo Corriere del Valdarno e Valdelsa, 2 febbraio 1919) si meraviglia che a tanti perspicaci indagatori « sia sempre sfuggito come la parola empori o empoli, tale e quale, sia un plurale latino che significa mercanti….

Probabilmente è questione d’occhi, perchè il Forcellini non solo registra il vocabolo empolus, ma oltre alla etimologia greca egli aggiunge che esso è anche un cognome romano (Lucius Appuleius Empolus). Con questo si potrebbe dubitare che il nome del paese derivi da quello di qualche antico proprietario romano in questa parte di Liguria.

Si tratterebbe allora di famiglia romana dedicata alla mercatura; ossia d’un fatto consimile a quello che tutt’oggi si può riscontrare nel nostro paese dove esiste un cognome che ha molta relazione con l’antica arte muratoria, e si sa che le famiglie le quali lo portano, in gran parte hanno ed ebbero più o meno stretto rapporto con l’arte medesima »… Il Vanghetti allude, evidentemente, al cognome Maestrelli.

Certo, in questo, come in altri casi siffatti, è – diciamolo con franchezza – assai lato il margine per le congetture; ed una volta che si sia disposti, a ragione od a torto (e, forse, più a torto che a ragione), a derivar la parola dal greco, chi pensasse ad un émbolos (tratto di terra cuneiforme tra due fiumi) e ad un suo specioso allacciamento con la denominazione locale di Bisarnella (terreno tra l’Arno e la foce dell’Orme), avrebbe al pari degli altri, il diritto di dir la sua e di farsi ascoltare.

Ma…de hoc satis. Con tutto il rispetto per l’erudizione dei proponenti vecchi e nuovi, non mi pare azzardato l’ asserire che, per questa faccenda dell’etimologia, si è sempre, a tutt’ oggi, impelagati: e felice chi potrà uscire  « fuor del pelago alla riva » !

Nota simpaticamente caratteristica del volume è quel frequente vagare per le plaghe fiorite dei più suggestivi ricordi paesani e quel discorrere tempi e vicende, a cui son legati i nomi dei cittadini appartenenti alle più antiche e notabili casate della Comunità.

L’ Autore ha così l’occasione di accennare all’ « illustre giureconsulto empolese  D. Cesare Pancetti che nel 1621 si scelse il sepolcro  » nell’ Oratorio del Pozzo (pag. 40), e di aggiungere in nota (pag. XXIII) che lo studio del diritto dovette essere tradizionale nella casa di lui, se anche il LAZZERI offre notizia di un Tommaso di Filippo Pancetti « giureconsulto assai dotto morto fiscale di Pistoia » (Storia di Empoli, pag. 139).

E qui poteva, giacché era in vena di digressioni, levarci una curiosità: se, cioè, l’ uno, Tommaso, non fosse per caso quel « giovin degno di Fille amante » e amato da la gran Silvera quell’ abile filodrammatico « che inver non avea pari a far da donna  » il quale ne La Presa di Saminiato d’ IPPOLITO NERI, sotto il velo anagrammatico di Casteno Pomatti, compie, tra i personaggi del poema, una parte veramente cospicua (c. III, II; IV, 67, 68; e passim), e se l’ altro, Filippo, non avesse ad identificarsi col Ceppin Paliotti, uno dei « cavalier gagliardi » della « general rassegna » , ch’era un bravissimo cacciatore da vero (c. V, passim e nota 13) e faceva « per  corpo d’ impresa in campo aurato, Un archibuso rotto e sfoconato », (c. V, 18), in quanto trovato a caccia in bandita, e stette molto in  prigione e spese molto danaro ».

La quale ultima notizia trovo nelle note più ampie apposte al poema dal prete GIUSEPPE NERI, pronipote di Ippolito (cfr. il ms. delle poesie e delle lettere neriane, esistente nella Biblioteca della nostra Società storica della Valdelsa  in Castelfiorentino).

Ma di questa curiosità insoddisfatta  siamo compensati ad usura da un cumulo di precise informazioni e di osservazioni giustissime.

Giustissima, ad es., la correzione del Nostro a quel che afferma il CORNA nel Dizionario della Storia dell’Arte in Italia, relativamente all’altare del coro nella Madonna del Pozzo (pag. XXVI): ed opportuno il rilievo della confusione che si fa tra la Compagnia di S. Andrea e quella della Madonna del Pozzo nell’ Empoli artistica di ODOARDO GIGLIOLI (p. IX).

Accuratissime son le ricerche sul Fracassa (Andrea di Simone di Matteo da Bonistallo), l’« homme de goût », – così lo disse il MUNTZ – che ideò e costrusse, per la chiesa del Pozzo, elegantissimo ottagono, « gentil fiore serotino » sbocciato nelle ricche « aiuole del nostro glorioso Rinascimento » (pagg. 44 e XXV).

E, tra le scorribande erudite che hanno particolare attrattiva per i cultori dell’arte, credo da segnalarsi i cenni sull’attività pittorica di Masolino in Empoli e il breve excursus sui giudizi concordi della critica intorno alla Vergine, al Bambino ed agli Angeli, dipinti nella lunetta di Santo Stefano degli Agostiniani (pag. 16 e segg., XII e seg.).

Né sarà discaro al Da Pisa il sapere che anche Gabriele d’Annunzio, ravvicinando, come già il BERENSON (The study and criticism of italian Art), l’ affresco d’ Empoli con l’altro del Battistero di Castiglione d’ Olona, rimase un giorno colpito, in Santo Stefano, dalla suggestiva bellezza della lunetta, e disse di averne ricevuta in cuore « tutta la castità » (cfr. Le faville del maglio nel Corriere della sera del 3 marzo 1912).

Ed anche interessantissime mi sembrano le notizie intorno a LORENZO NERI e a recensioni ed articoli, usciti dall’aurea penna di lui, sparsi nel periodico La Gioventù : Rivista nazionale italiana di scienze, lettere, arti, ed altrove (pag. LVII e seg.); quella sul documento della proclamazione di S. Giuseppe a protettore di tutto il Comune, fatta nel 1538 dal Gonfaloniere e dagli Otto Signori componenti il Magistrato della Terra d’ Empoli (pagg. 109, XLV e seg.), notizia, con l’altra sul prodigio del « grosso» oggi conservato in Firenze tra le più insigni reliquie di Santo Spirito (pagg. 28, 29 e XVII), e con altre ancora, preziosissima per chi abbia vaghezza di scrivere della nostra storia il capitolo Empoli agiografica; quella, che è anche una primizia, sul recente ritrovamento, nelle mura castellane, del tratto preciso in cui, a settentrione, fu aperta la breccia durante l’ assedio degli Spagnoli.

Questo ritrovamento conferma la importanza di documento esatto e veridico al noto affresco vasariano di Palazzo Vecchio (anche da ACHILLE PELLIZZARI e M. LUPO-GENTILE nel 3° vol. de La Storia d’ Italia, edita dal Perrella di Napoli, recentemente riprodotto quale specimen de L’assedio di una Città nel Cinquecento); chè nell’affresco, proprio in quel punto, la breccia è visibile.

Il muratore che la richiuse, dalla parte dell’ « orto del Granduca » , oggi di mia proprietà, v’ impresse a  graffito il suo nome: Io Gio: An.nio di Domenico Galli m.

Aggiungo, per mio conto, che a pochi metri di lì, presso lo sperone estremo nord-est, sotto il così detto torrione, tolti di mezzo poco tempo fa alcuni ammassi di pacciame e impedimenti di vario altro genere, è comparsa alla vista una larga soglia di pietra, posta – sembra – a sostegno di un breve ma solido muro, che chiude la luce di un più vecchio arco in mattoni.

La soglia porta incisa la data MDXXVI. Da quel punto, secondo il  « si dice » dei nostri vecchi, per un cunicolo sarebbe stato possibile accedere all’ antico Mandriaccio e, sempre per vie sotterranee, al Palazzo della Potesteria e ad altri edifici. « Si dice ». Vero? Ai cultori dell’ indagine storica l’ ardua sentenza.

E lievi sono nel volume le mende da rilevarsi. Vincenzo Salvagnoli fu Ministro degli affari ecclesiastici nel ’59, non nel ’49 (pag. 156). Le feste solenni (o  « grosse » , come si dice) del Crocifisso delle Grazie ebbero luogo nel ’69, non nel ’59 (pag. XLIX).

Se non che queste, con altre poche (c’ è – tra le poche – una Guida, quella del BUCCHI, che non soddisfa al cómpito, essenziale per i libri della sua specie, di non tradire, e mi diventa pari pari un Giuda!), mi paiono sviste del proto piuttosto che abbagli dell’Autore.

Don Alfonso Busoni fu nipote, non figlio del maire Luigi Busoni (pag. 157). Panicale, luogo natio di Masolino, non è nella Valdelsa; ma nel Valdarno di sopra (pag. 16 Si fa menzione di  « una letteraria adunanza », tenuta in « Empoli pochi anni or sono » e di un ingegnoso sonetto lettovi da una sposa novella sul tema della Passione di Cristo: ma la citazione, tolta dai  « ricordi inediti del Santuario » fatta in modo da lasciare perplessi circa il tempo dell’ « adunanza », laddove, manifestamente, il  « pochi anni  » esatto ne’ riguardi dell’estensore dei ricordi, vuol esser cangiato, ne’ nostri, in un « molti  », anzi  « moltissimi anni fa. » (pag. XXXVII).

Non credo che al  «campaccio » fosse affibbiato  « il poco onorevole nomignolo » come a luogo dove si desse convegno « gran moltitudine di dubbia fama e di licenziosa condotta » (pag. 21), ma semplicemente perché si trattava di terreno trascurato ed incolto.

Né, da quel che è detto nel libro, riesco a convincermi completamente sulla ubicazione dell’hospitium peregrinorum e sulla sua identificazione con l’Albergo della Cervia (pag. 6 e segg.): mentre è certo che un edificio a modo di  « spedale e casa che serviva per uso dei poveri pellegrini ed infermi » esisté ab antiquo in Via dei Guiducci (oggi, dei Neri) e nel 1531 accolse, ridotto a Monastero, le religiose di S. Benedetto, per l’innanzi collocate provvisoriamente presso la Collegiata, nella casa di proprietà di Taddea Capacci (cfr. Storia d’ Empoli del LAZZERI, pag. 50, e il ms. Lunario Empolese per l’a. MDCCCV del can. LUIGI LAMI, citato anche dal Nostro a pag. 151).

Trovo inoltre che la numerazione romana delle pagine adottata per il Proemio e, dopo il testo, in Note e Documenti, a guisa d’ un missale romanum di vecchia edizione, può, nelle citazioni, ingenerare equivoco: ed avrei preferito che nell’Appendice II (pag. 193) non tutti gli epitafi del Sepoltuario fossero stati trascritti, ma quelli soltanto dei cittadini più distinti e benemeriti per ingegno e per  « opere egregie », per i quali unicamente, in principio, si ebbe intenzione di fare del loggiato esterno del Pozzo  « un cimitero illustre » (pag. 122).

Osservo per ultimo che nel Catalogo dei “Governatori “ della Compagnia, mentre ad alcuni nomi di pressoché insignificanti figure è fatto seguire un cenno, sia pure in molti casi brevissimo, tra biografico ed encomiastico, nulla si dice, ad es., del canonico ALESSANDRO FIGLINESI (pag. 153), uomo di eccellente e svariata erudizione.

Sarebbe bastato un fugace riferimento a quanto il prof. ALDO VANNINI di lacrimata memoria scriveva del geniale canonico, in merito alla grande scoperta del  « fonicismo » fatta ed annunziata da lui in un suo Sillabario edito nel 1844, e a quanto anch’oggi è, tra noi, universalmente saputo di un suo nuovo metodo per l’ insegnamento della musica molto lodato dai competenti, e delle sue composizioni d’ indole sacra, ispirate alla classica liturgia, in un tempo in cui, specie nei templi delle città di provincia, era lecito a’ compositori cannaneggiare in cabalette profane (cfr. Il Piccolo Corriere del Valdamo e della Valdelsa, gennaio-febbraio 1909. Supplem. al n.9. Nel secondo centenario dalla morte d’ Ippolito Neri).

Chi mi ha seguito in questa pedestre disamina del volume potrà pensare – e non senza un qualche buon fondamento – che in esso, a non farci lamentare l’ assenza di quel poco che non v’è e che vi avremmo desiderato, abbia poi trovato posto assai più di quello ch’ era inerente al soggetto. E così è difatti.

Ma non sarò io a lagnarmene, né ad applicare, rigidamente col CROCE la massima che, quando  « nel disegno di un lavoro non sono già impliciti i suoi limiti invalicabili, vuol dire che il disegno è difettoso » (cfr. La letterat. della nuova Italia – I. Nievo – vol. 10, pag. 131). FAUSTO NICOLINI, dicendo recentemente del Brunetto Latini e il Pataffio di ANTONIO PADULA (Giornale d’ Italia, 19 novembre 1920), osservava che il lettore, anche se tratto a riconoscere varie parti del libro per non necessarie,  « resta sempre grato all’autore, che gli ha dato con garbo, e senza annoiarlo, notizie utili e che tante volte si cercherebbero invano altrove ».

È il caso nostro. Con un dovizioso corredo d’ informazioni attinte a fonte ineccepibile e di opimi rastrellamenti d’archivio, il dotto Cappuccino, dopo aver disegnato con ampia linea l’ architettura del suo lavoro, profonde, nell’ eseguirlo, tesori a destra e a manca con prodigalità da gran signore; e smentisce, per una volta almeno, il dettato:  « idee da principi, borsa da cappuccini ».

Intanto, con questo bel volume del P. Sisto, con l’ Empoli artistica del GIGLIOLI, con la Guida del BUCCHI, con le Iscrizioni del POGNI, e alcune recenti e valenti pubblicazioni di EMILIO MANCINI (potrei, per qualche mio lieve contributo, noverarmi anch’ io – sempre a una rispettabile distanza da costoro, intendiamoci! – « sesto tra cotanto senno »?) con tutto questo materiale, dicevo, si è già formato un corpus di varie e interessanti notizie, del quale chi riprenderà un giorno, con vedute più larghe, il disegno del vecchio Lazzeri, dovrà indispensabilmente tener conto per dettare una storia organica della nobile Terra dove, or sono sette secoli, Farinata degli Uberti fu  « solo» a levar fiera la voce in difesa di Firenze.

Empoli, 8 dicembre 1920.

VITTORIO FABIANI