IL CAPITAN CANTINI
DELLA VALLE DI MONTERAPPOLI 1
di Vittorio Fabiani
da: Miscellanea Storia della Valdelsa, n. 58, 1912
Trascrizione di Andreina Mancini e adattamento per il web di Paolo Pianigiani
Nel nome di una trinità poetica, Francesco Redi, Ippolito Neri e Giovan Santi Saccenti, noi ci disponiamo a salire il colle di Monterappoli: nel nome del Redi glorificatore dei suoi vigneti, nel nome del Neri glorificatore del suo eroe, nel nome del Saccenti glorificatore della illustre discendenza dell’ eroe.
Se lo Gnoli ha, oggi, encomiato, così, tutto in un blocco,
« il succo rubente de’ grappoli
che nella valle gioconda
dell’ Elsa chiomata di pampini
l’amor del sole feconda, »2
il protomedico granducale ne celebrava, or sono tre secoli, divisi per viziati e per zone, i vini diversi.
E proprio di questa plaga, che sta a confine tra la valle dell’ Elsa e la valle dell’Arno, per bocca di un dio che se ne intendeva, egli lodava il vin di Val di Botte :
« (ma del vin di Val di Botte
voglio berne giorno e notte
perché so che in pregio l’hanno
anche i maestri di color che sanno) »,
1) Discorso tenuto dal prof. dott. Vittorio Fabiani della R.a Scuola Tecnica di Empoli nell’Adunanza della Società storica della Valdelsa, ch’ebbe luogo il 5 giugno u. s. nella Villa del Terraio presso Monterappoli.
2) Giulio ORSINI (D. GNOLI), Poesie edite e inedite, p. 143.
dispregiava il Pisciancio:
« (il Pisciancio del Cotone
ond’ è ricco lo Scarlatti,
vo’ che il bevan le persone
che non san fare i lor fatti), »
ma sopra tutto esaltava
« l’ altera porpora
che in Monterappoli
da’ neri grappoli
si bella spremesi »
e, maritata al Mammolo, voleva tracannarla per innaffiarne le aride viscere, tra gli strambotti e le frottole degli esperti Fauni, fra i talabalacchi delle turbe villane plaudenti da’ poggi vicini, tra forosette strimpellanti il dabbudà e danzanti il bombababà. 1
Ma dopo il celebratore di questa amenissima terra, ecco il celebrator dell’eroe. Non certo l’Elsa che dal Neri fu detta fiumaccio, perché, straripando, gli porti via un mezzo podere 2: ma il valdelsano Cantino Cantini sì che deve ad Ippolito se anc’ oggi è simpaticamente popolare tra noi.
Che cosa di sicuro ci dice la storia intorno a quest’ uomo? Cerchiamo di esser chiari, ma brevi, se è possibile.
Nel 1397 Benedetto di Bartolommeo Mangiadori, in San Miniato al Tedesco, fa gettare da una finestra del Pretorio Davanzato Davanzati, Vicario di quella Terra da 27 anni per conto della Repubblica fiorentina, e tenta di sollevare il popolo contro Firenze.
Ma il soccorso di Pisa, in che il Mangiadori sperava, non giunge: già il popolo tumultua: tra i devoti a Firenze dei paesi limitrofi, accorsi a domar la rivolta, è dei primi a comparire Cantino Cantini; il quale come si legge nell’Ammirato3 con 2000 fanti raccolti da Monterappoli, suo paese nativo, da Pontorme, da altre terre, e massimamente da Empoli, luogo più popoloso di tutti, che formavano insieme una Lega, quale appunto si legge nel VII sigillo illustrato dal Manni, riprese d’ assalto, smantellò e ridusse alla obbedienza la Ròcca: ed il Catorcio della casa del Mangiadori – che nella opinione del pubblico divenne poi il Catorcio d’una porta della città – trasferì, qual trofeo di victoria, in Empoli, dove rimase appeso alla facciata del Palazzo vicariale, fino all’ anno 1849, in cui, dopo varie vicende, fu definitivamente tolto, perchè fomite di comunali discordie.
(1) REDI, Bacco in Toscana, vv. 466-70, 91-4, 390-440.
(2) NERI, Il Samminiato, c. I, 12.
(3) Istorie fiorentine, parte I, tomo 4°, libro XVI.
Questo fatto d’armi procurò tale onore al Cantini che i Priori delle Arti e il Gonfaloniere di Giustizia con 165 voti favorevoli, decretarono di concedergli solennemente tutti quei privilegi che si trovano scritti in una carta dell’ Archivio delle Riformagioni, della quale conservano copia – ed io l’ ho vista – i discendenti del prode e fedel condottiero, presentemente domiciliati in Empoli; e, primo tra i privilegi, il titolo di nobiltà:
« quod dictus Cantinus et eius consortes et coniuncti per lineam masculinam, et ipsorum et cuiusque eorum descendentes per lineam masculinam, tam nati quam nascituri, et quilibet ipsorum de cetero in perpetuum, sint et esse intellegantur de Nobilibus Comitatus, et sic appellentur et censeantur. »
Questo è ciò che di storicamente accertato possiamo dire del Capitano di Monterappoli.
Quanto ci racconta Ippolito Neri di quell’esercito di capre che, con tanti lumicini attaccati alle corna, avrebbero spaventato i nemici, e quant’altro ci dice del volo dell’ asino (vecchia costumanza medioevale, non di qui soltanto, ma di Francia e d’ altrove), il cui cominciamento – come vedremo – egli ha connesso con la presa di San Miniato al Tedesco, non era che una diffusa e popolare leggenda: la quale, per ciò che riguarda l’agmen caprinum, ha forse avuto origine dall’essersi introdotto il Cantini, nottetempo e co’ più valorosi, per un cunicolo che dalla via, detta delle corna, menava alla Ròcca.
In ogni modo ci aggrada conoscere il Cantino della fantasiosa versione neriana: quel leggendario Cantino che ha finito per soppiantare lo storico.
*
* *
Intanto è bene si sappia che il nostro eroe entra in iscena solo nell’ ultimo canto del Samminiato, nel duodecimo.
Baronto, il generalissimo degli empolesi, batte e stringe la Ròcca da tempo; ma Silvera, la Clorinda Samminiatense, rende vano ogni attentato nemico, e Baronto è costretto a ritirarsi. Nel mentre egli parla di un suo disegno di disperata resistenza ai convocati Baroni,
« salta nel mezzo un ser cotale,
all’abito villan, villano al dire,
nato della gran casa de’ Cantini,
gloria del Campo, onor dei Contadini.
Volto a tutti dic‘ ei:
Se acconsentite
che a modo mio s’accomodin le cose,
senza tanti scarpori e tante lite
billere farò io sghiribizzose.
Queste sciarrate il gran Baronto udite
– Che mai faresti? – al tanghero rispose.
– Più – dice quei – che a manicare un pane,
mi do vanto a carpir quella cittane.
E se mi date quel che m’abbisogna,
veder farommi al corpo di mio Padre
che al ver si trova, e io sono alla menzogna,
che voglio far più io che cento squadre.
Come a un briaco che dormendo sogna
e cose dice insolite e leggiadre,
così dà fede il Concistor sovrano
ai vanti di quel ruvido villano. »
Ma, a poco per volta,
« come avviene ancor che la speranza
di ciò che si vorria fa veder cose
che fin dell’ impossibile han sembianza
e rassembrano altrui miracolose, »
in seguito alle reiterate promesse di lui, finiscono col dar
« tutti d’accordo il regio braccio,
udito questo, al temerario gonzo,
che promette levar tutti d’ impaccio,
vincendo senza usar ferro né bronzo.
Vanno gli altri guerrier tutti al covaccio
ch’era già mezza notte, e solo a zonzo
giva il Cantini e seco avea parecchi
branchi di capre già provvisti, e becchi.
E con mille compagni in camerata
e quel popol cornuto il monte ascese:
e, marciando furtivo e alla sfilata,
la via, che volta a Poggivisi, prese:
poi dell’ irsuta e puzzolente armata,
ad ogni corno un lumicino accese,
e tutto il colle in tale ordin coperse,
rassembrando l’esercito di Serse. »
Arrivato il gregge presso alla porta, le trombe squillano; si grida: « Evviva Empoli! »; i difensori della città fuggono spaventati, pensando che le anime de’ morti col lumicino, tutti i diavoli e tutte le streghe sien venuti a processione pel monte: Baronto con i suoi soldati accorre ed occupa San Miniato; si stipula la capitolazione e, quindi, l’esercito empolese ritorna glorioso in Patria.
« Marcia con gravitade a tutti avante
Cantini d’alloro incoronato,
cui scorgonsi i trionfi nel sembiante
ex comitatu nobil dichiarato:
sostien la destra un chiavistel pesante
da Portempoli a forza sgangherato,
che di Mercurio sembra il Caduceo,
delle vittorie sue segno e trofeo. »
Intanto il Console di Empoli, saputa la lieta novella, esce con gli Empolesi a salutare le truppe vittoriose e
« incontra prima il popolo cornuto
per cui l’alta Metropoli d’un Regno
sorpresa fu da quel villano astuto;
van gloriose le Capre ed in contegno,
con rossa copertina di velluto,
argentate han le corna, e cede a loro
d’ Elle e Frisso il Monton col vello d’ oro. »
E qui il Poeta esclama con enfasi:
« O degne Capre! oh se coi versi miei,
per voi lodar, potessi alzarmi tanto,
su nell’ottavo cerchio io vi vorrei
all’Orso, al Tauro, al Capricorno accanto!
E come i Minotauri e i Pegasei
di stelle avreste trapuntato il manto,
per poter influire, astri felici,
nel mondo influssi d’oro ai becchi amici. »
Gironeo – così ha nome il Console – fa intanto mille baciamani ed inchini all’eroe Cantino che guida, col suo Catorcio nella destra, il branco dei guerrieri fetenti;
« ma quel rozzo belligero villano
appena gli si leva di cappello,
e tien sempre diritto il chiavistello. »
Quindi l’eroe è fatto salire su di uno splendido cocchio tra Gironeo e Baronto,
« e al dolce suon di cembali e liuti, .
come si fa quando si canta maggio, »
s’ arriva sino al Palazzo della Signoria, dove scende
« trionfante il Cantini e sua genìa
che intorno gli era con le Capre, a piede;
i guardiani col branco vanno via,
mentr’ei coi Grandi a Parlamento siede. »
E, in Parlamento, l’almo Senato delibera
« che quel degno trofeo del chiavistello
al Palazzo di fuor venga appiccato,
a vista altrui con l’ uno e l’altro anello; »
e poiché Silvera, quando le fu intimata la resa di San Miniato, rispose
« che gli Asin pria volar di posta
si vedranno pel ciel da Battro a Tile,
che la forte Città co’suoi paesi
cada in poter già mai degli Empolesi, »
dà ordine che, il giorno appresso, dal Campanile della Collegiata si voli un Asino, e che ogni anno, pel Corpus Domini, in memoria di un’ impresa si degna, si rinnovelli la festa.4
*
* *
Così termina il canto duodecimo ed ultimo, per il quale – dulcis in fundo – Ippolito Neri ha riserbato le sue trovate più originali, e che non risentono della solita imitazione pedissequa d’altri poemi; in quel canto, più che nei precedenti, si assolve il compito predicato dalla protasi: quello cioè di celebrare « il capitan Cantini », « la strattagemma ordita e tesa di tante corna e tanti lumicini » e « il vincitor drappello » che « portò quel memorabil chiavistello. »
La « Cuccagna » del Samminiato, ad es., non è che il vecchio « Paese di Bengodi. »
Il Neri, che già in un sonetto aveva descritto la « Gelosia » secondo quello che se ne dice nel Filocolo, ed era talmente innamorato del Decameron da invidiare al concittadino dott. Termpesti « un Boccaccio di que’ proibiti, bellissimo, di buona stampa, come nuovo, e del prezzo di tre talleri » mentr’ egli aveva solo « quello castrato del SALVIATI, »5 amplificò il « Paese di Bengodi » con motivi tolti, sia pure con garbo, dal « bel barco del diletto » dipinto da PIERO DE’ BARDI nel suo Avino Avolio Ottone e Berlinghieri6 e, probabilmente, per ciò che riguarda l’architettura gastronomica dell’edificio, dalla Compagnia del Paiuolo nella Vita di Gian Francesco Rustici di GIORGIO VASARI.
(4) Il Samminiato, c. XV, dalla st. 59a in poi.
(5) Cfr. Codice Magliabechiano, VIII, 689, lettera a c. 72.
(6) Cfr. il c. XII.
E, insieme con questa, abbiamo nel Samminiato tante altre imitazioni d’obbligo per un facitor di poemi. Vi si parla di anelli incantati! Ma gli anelli incantati, fin da quello mirabile di Gige, sono stati un luogo comune nella fantasia dei poeti, prima di ossere una realtà più incantatrice d’ogni incantevole fantasia con l’anello del … PACINOTTI.
Vi si parla di carri e cavalli che volano, a mo’ d’ Ippogrifi ! Ma questi monstra volantia erano già un miracolo comune nella fantasia de’ poeti, prima di essere un miracolo più vero e maggiore della realtà con i palloni e i velivoli. Vi si parla di fughe: fughe di donne, di cavalieri, di amanti!
Ma queste fughe erano già, precipitose e frequenti nella fantasia de’ poeti prima di addivenire più frequenti e precipitose nella realtà, con le fughe dei … cassieri.
E altrettanto si dica de’ clipei famosi (la efficacia dello scudo tassesco è prodotta, ad es., nel Samminiato da un cuore di cornacchia: ridicola trasformazione, ma confacente all’ indole del poema eroicomico), delle famose rassegne di eserciti, de’ famosi vaticini con relativa teoria di vati, di artisti, di principi.
Ma l’affare delle corna, del chiavistello e, in fine, del volo dell’asino, è affare di privativa del Samminiato, non di altri poemi.
E mal si apporrebbe chi immaginasse una qualche corrispondenza, giudicando all’ ingrosso dal titolo, tra il chiavistello del NERI e il Catorcio d’Anghiari del NOMI, pubblicato solo nel 1830 e che, dati gli affettuosi vincoli d’amicizia con l’ eruditissimo signor Federigo, quali ci appaiono dall’ epistolario neriano, il Neri, caso mai, potè veder manoscritto.
Il ratto del Catorcio, come il ratto d’Elena o – per stare più in tono – come il ratto della « vil secchia di legno », è causa di guerra: di guerra o, meglio, di guerriglie tra Borghigiani e Anghiaresi.
I quali ultimi – siccome narra LORENZO TAGLIESCHI nella Istoria d’Anghiari – accortisi che, durante una incursione dei nemici nella loro Piazza, era stato rubato il chiavaccio della Piccola Porta del Ponte « si misero dietro a loro, ed avendo questi preso vantaggio con la fuga, erano già passati il Ponte del Tevere, dove, incontratisi in una squadra di donne ch’eran dietro ai loro Borghesi, gli Anghiaresi, non potendo in altro modo vendicarsi, tagliarono a dette donne le gonnelle sino alla cintura, e ciascuno sulle picche e bastoni a guisa di trofeo portava il suo pezzo: i quali per memoria di questo fatto furono conservati per lungo tempo nella Fraternita di Anghiari, sinché … essendo guasti dalle tignole, furon gettati via. »
II ratto – se così può dirsi – del catenaccio nel Samminiato, è invece l’effetto di una guerra finita, emblema, quasi, di una riconosciuta ed accettata giurisdizione, portato in mostra, a guisa di scettro, dall’eroe vincitore. Il cui nome – sia detto fra parentesi – a quel modo che si ricava dal documento citato, è Cantino; non Domenico, come qualcuno ha detto facendo confusione tra il nome di lui e quello del padre7; non Giovanni come, per comodo di rima, e chiamato in un sonetto trascritto in appendice ad un autografo del Samminiato 8, e attribuito ad un dottor Genovesi.
Certo a me sorriderebbe l’ idea che col Luparello monterappolese, ricordato dal REPETTI9, come uno di coloro che contribuirono alla presa di S. Miniato al Tedesco, potesse identificarsi Cantino Cantini, così conosciuto da un suo soprannome.
Per un esercito di capre bizzarre e caparbie qual miglior condottiero di un Luparello o Lupacchiotto che dir si voglia! E allora, oltre alla Via delle Corna, avremmo un altro dato a far luce sulla origine della nostra leggenda. Tanto più che di lupi e di capre son piene le cento e cento tradizioni medioevali; e non v’ ha chi non ricordi, ad es., tutto il favoleggiare su Montelupo e Capraia, l’un borgo di fronte all’altro sulle opposte rive dell’Arno; che, a’ tempi delle puntaglie municipali, si fantasticava guardarsi minacciosi e torvi, talché mal ne incôrrebbe a Capraia, o mandria di capre, se osasse stuzzicare la rabbia di Montelupo, ovverosia del Lupo del Monte.
Fiabe, s’intende, quisquilie e cianciafruscole, che solo traevano la forza efimera dalla etimologia messa a servizio degli sdegni di parte: finché, forse, in tempi di più pacifica convivenza, non fu fiorito sulle labbra dei popolani il motto tutto spirante idilliaca dolcezza e buon promettitore di pacata progenie: Da Montelupo si vede Capraia, Iddio fa le persone e poi le appaia.
(7) Cfr. le belle pagine delle Memorie storiche di San Miniato al Tedesco di G. RONDONI, (San Miniato, Ristori 1876, cap. IX, pp. 168-9)
(8) Questo autografo è posseduto da mons. cav. dott. Gennaro Bucchi Proposto di Empoli ed è in tutto eguale all’esemplare della Riccardiana (Cod. cart. in fol.2767)
(9) Cfr. Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana alla voce Monterappoli. Di Cantino il Repetti parla soltanto alla voce San Miniato al Tedesco.
Ma il REPETTI volle certamente, in quel passo del suo Dizionario ecc., riferirsi a una sommossa del 1369 domata dal conte Ruberto da Battifolle, né le notizie, che abbiamo d’altra fonte intorno a Luparello, ci danno facoltà d’ipotesi sorridenti ma inammissibili10.
Comunque – ritornando a bomba – quello che ho tentato abbozzare, è il Cantino della tradizione anc’oggi in credito: non mica un Capitano che faccia il mestiere delle armi, ma un irregolare, e per questo anche più simpatico: uomo che non difetta di fegato, ma che è pure un maestro di belliche frodi: che ai colossali e inanimati arieti della vecchia strategia sostituisce piccoli arieti di ciccia: un Ulisside, ecco, che al posto dell’ « agguato del cavallo » ha messo un agguato a scartamento ridotto: agguato delle capre.
Né il nostro popolo può buttar giù e digerire altro Cantino che non gli si presenti in questa ch’è la forma volgata.
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Circa quarant’anni fa (io non c’ ero: né lo dico sospirando) un certo prof. Gigli, cascato in Empoli non si sa come, bel tipo di avventuriero, a quanto ci dicono i vecchi, e cercatore indefesso di lezioni a domicilio, a scopo, forse, di autoréclame, volle dar saggio di sua abilità letteraria e portò alla ribalta l’eroe della Valle di Monterappoli, facendolo protagonista di una tragedia: La Presa di San Miniato, con scene di sangue e morti a bizzeffe.
La Presa di San Miniato in atti di tragedia!!
Fu un imperdonabile errore di prospettiva. Quella Presa non si concepirà mai all’infuori della giocondità del poema eroicomico. L’autore attinse alla storia.
Ma chi s’interessa più della storia? Per la gente grossa, e non grossa, il comico, per quanto eroico, non avrebbe mai potuto esprimer da sé tanto succo di amaro, da riempire un bicchierino di lacrime da tragedia. E il pubblico fischiò.
(10) La Guida della Città di San Miniato al Tedesco, (San Miniato, Ristori) a pag. 30. Il compilatore G. PIOMBANTI ha attinto all’Ammirato, al Pignotti, al Rondoni ecc. Dirò di più che lo stesso Repetti, alla voce San Miniato al Tedesco, parla di Luparello, che con mezzo da traditore dette San Miniato a Firenze, come d’un terrazzano (gli altri storici lo dicono esplicitamente un fuoruscito Samminiatese), non come d’uno della terra di Monterappoli.
All’ infuori d’ogni apprezzamento sulla travatura del dramma, che naturalmente rimase inedito, o sulla maggiore o minor bellezza del dettato, il pubblico urlò, schiamazzò, fischiò, perché gli parve di essere in presenza di qualcosa che fosse stranamente logico, come, a mo’ d’ esempio, il diavolo che si fa frate o le querci che fanno i limoni.
E quel Cantino, che nel ‘300 seppe la vittoria, dopo un mezzo millennio corse pericolo d’esser coperto d’obbrobrio sotto la maschera dell’istrione che lo impersonava nella panzanella tragica di un autor dozzinale.
Che – come è facile immaginarsi – prese il volo (una specie di quello dell’asino) e in Empoli non si vide più.
Nessuna meraviglia, quindi, se qualcuno che imprenda a narrare, così, un po’ alla leggiera gli avvenimenti della nostra storia e a tratteggiarne le più notevoli figure, incorra talvolta in svarioni e marroni.
Ond’è che Cantino, salvatosi dalla bufera di una platea in subbuglio, ha potuto, non è passato un anno, scatenar lui, alla sua volta, una bufera tra due litiganti, che per poco non scesero sul terreno.
Un fiorentino, nascosto sotto lo pseudonimo di IL CIAMBOLI, in un opuscolo dal titolo: Ad Empoli volar per Corpus Domini. Abbozzo d’ una storia d’ Empoli11 e del suo ciuco parlava del « buon Cantini » come di un « pecoraio » che si aggirava nei pressi di San Miniato, e che, sapute le difficoltà dell’ esercito empolese, stabiliva di venirgli in aiuto con la brigata di tutti i capri e di tutte le pecore del suo gregge. Inde irae.
Un tardo nepote del capitano montrappolese scriveva nel Piccolo d’Empoli2, protestando che nel predetto opuscolo si tirasse in ballo « il suo antenato più noto ed illustre in modo non conforme alla verità » ed intendendo perciò di porre le cose secondo giustizia.
« Sappia dunque l’autore del libercolo – continuava – che il capitano Cantini non era un pecoraio, ma bensì un condottiero di esercito, che rese segnalati servizi alla patria sua, ed in virtù di questi fu insignito di un titolo onorifico, come risulta dai preziosi documenti di famiglia che tengo presso di me.
Dall’opera del capitano Cantini venne (secondo la comune tradizione) l’ istituzione del volo dell’ asino, del qual volo nel vostro opuscolo, egregio sig. Ciamboli (finiva con questa apostrofe) parlate con sì profonda conoscenza, che potreste esser davvero un futuro candidato per il volo, qualora potesse essere ripristinato ».
(11) Firenze, Tip. Cooperativa, via Palazzuolo, 1911, pp. 18-9.
(12) Il Piccolo corriere del Valdarno e della Valdelsa, 24-25 giugno 1911.
E il Ciamboli, nel numero seguente del medesimo Piccolo13 rispondendo a quel tardo nepote « che leticava – son parole del Ciamboli – per uno spicchio di nobiltà molto discutibile » e recando a difesa della sua tesi il ruvido villan e le altre qualifiche appioppate a Cantino da IPPOLITO NERI nel Samminiato, concludeva ironicamente col dirsi lieto che fossero messi a sua disposizione quei tali documenti di nobiltà: giacché, facendo ammenda dei suoi torti e di quelli del Neri, egli avrebbe rimediato in un’edizione dell’ opuscolo, ampliata, riveduta, corretta ed anche illustrata, e dove, per debito di riconoscenza, tra le illustrazioni avrebbe figurato il ritratto del tardo nepote.
Il quale andò su tutti i fulmini, e sempre nel Piccolo14, dopo una tirata d’ orecchi al suo contradittore, scriveva:
« Le citazioni del Neri non provano niente. Il Ciamboli ha la ingenuità di prendere per vere le gaie ” frottole „ (c. XII) d’ Ippolito Neri, il quale, senza forse, sapea bene che quel che scriveva era ” gaia e bizzarra fantasia „ »
e (c. XII, 3) e presago che non tutti i suoi lettori sarebbero riusciti a capire lo spirito del suo poema, ammoniva:
« Ed ammutiscan pur gli sfaccendati
che fanno gli almanacchi sul mio tema,
non m’essendo caduto nel pensiero
che quel ch’ io scrivo sia creduto vero.
« E legga pure il sig. Ciamboli anche il verso 4° della stanza 89a dello stesso canto (ex comitatu nobil dichiarato) con la nota che in molte edizioni si trova15.
E se vuol leggere uno storico favorisca di sfogliare un po’ il secondo volume dell’Ammirato. Gli farà comodo per ampliare quel suo “ aborto „ pardon, “abbozzo „ di storia empolese. »
(13) Cfr. n.. del 2 luglio 1911.
(14) N.o del 16 luglio 1911.
(15) La nota 10 del c. XII è questa: « Così veramente dice il loro Privilegio in carta pecora.. »
Rispose il Ciamboli: ma la Direzione del Piccolo « per il bene d’entrambi i contendenti »16, non pubblicava la « breve, ma troppo salace risposta », troncando così una « polemica che minacciava degenerare in uno scambio d’ ingiurie » ed evitando che, in seguito ad una eventuale cruenta vertenza cavalleresca, si potesse esclamare :
Ahi, ahi, Cantin, di quanto mal fu matre,
non la tua espugnazion, ma quella dote
di…. “ sangue bleu „ che desti ai figli, o patre!! »
*
* *
Del resto è nota simpaticamente umana, questa: che un epigono difenda l’onore di un proavo illustre ed illustrato già, nelle opere sue non solo, ma anche in quelle d’alcuno degli stessi suoi epigoni.
E’ un discendente di Cantino quel Sor Abate Segretario di don Marco di Beauvan Principe di Craon, Presidente al Consiglio di Reggenza in Firenze, a cui Giovan Santi Saccenti indirizzava due dei suoi ameni capitoli 17.
L’Abate ha fatto al Saccenti tali e tante grazie
« che forse non le avrà chi tutte impegna
“ le donne, i cavalier, l’armi, gli amori „ »,
onde il Poeta esalta e vuole che
« sia benedetto il Capitan Cantini,
quei che prese una notte Samminiato
con tante corna e tanti lumicini ;
benedetto non già come soldato
né come condottier dello squadrone
lumicornicaprificobarbato, »
ché poco ne venne da’ suoi bellici acquisti ai nepoti, se ne togli quel privilegio,
« che nell’ antico nulla or or trabocca, »
(16) N.o del 23 luglio 1911.
(17) Cap. VII e cap. VIII.
ma per aver prodotto un valentuomo come l’Abate: questa sì che è vera gloria, questo sì che è gran merito.
L’avere spalancato le porte serrate di una città nemica
« per via di luminose aste pungenti,
verbigrazia di corna illuminate, »
non gli dà tanta gloria, quanto il contar l’Abate per « discendente e successore della sua schiatta. »
La schiatta augustina, quella del divo Augusto – prosegue il Saccenti rivolto al suo benefattore –
« non mi fe’ mai né ben né male.
Quanti poi m’abbia fatto la Cantina
favori immensi, e quanti me ne faccia,
non lo saprei ridire a una dozzina.
E qui la vostra mente si compiaccia
di apprender per cantina, non già quella
profonda grotta dove il vin si ghiaccia.
Mi fa del bene e del favore anch’ ella,
mi ristora le vene, e spesso arriva
insino a raddoppiarmi la favella.
Alle volte però si fa cattiva:
e chi troppo con lei vuol far l’amico
non sa poi quel che parli o quel che scriva.
Costei non ha che far con quel che io dico
che per cantina intendo la cortese
stirpe di quel Campion, ch’ io benedico.
Intendo dir di Voi che ben palese
mostrate al mondo quanto puote un ramo
illustrar quella pianta onde si stese.. »
Ed ecco la completa glorificazione di Cantino: Cantino glorificato nelle sue gesta, glorificato nella sua progenie. Che più?
*
* *
Ricordo che, una bella sera di maggio, il nostro Tanfucio, che abbiamo oggi il piacere e l’onore di vedere tra noi, nel mentre conversavamo sul verde ripiano davanti a Dianella, mi accennava col dito qua e là ville, paesetti, colline, monti disposti ad ornamento di questa plaga incantata che l’Arno traversa:
« …. E quanti ricordi di storia e d’arte! – diceva il Fucini – Pensate un po’. Ab Iove principium. Ecco qui Vinci col suo Leonardo: laggiù Lamporecchio col Berni, Monsummano col Giusti, Cerreto che ci ricorda Isabella e conta pur esso il suo poeta, Saccenti; e poi San Miniato con le vetuste memorie di Pier delle Vigne, dei Borromei, dei Bonaparte: più in là Certaldo col Boccaccio, Gambassi con l’incomparabile Cieco; laggiù Montelupo con Baccio. Qui sotto, Empoli col Neri, col Chimenti, col Salvagnoli, e Pontorme col Carrucci, col Marchetti. »
La lista non fu completa: il Fucini si dimenticò, io mi dimenticai, tutti e due ci dimenticammo di Monterappoli e del suo Capitano. Anche gli uomini d’arme meritano fama al pari degli uomini di scienze, lettere ed arti, ed in certi momenti, anzi, si intuisce tutta la giustezza del cedat armis toga. Abbiamo rimediato, ora, alla dimenticanza, col far menzione di Cantino e della sua terra natale.
Il che tornerà gradito anche ad Ippolito Neri, che sarebbe come chi dicesse il Torquato Tasso di questa specie di Goffredo di Buglione, visto col canocchiale alla rovescia.
Povero Neri! Se fosse qua, oggi, in mezzo a tutta questa gente erudita, si troverebbe alquanto impacciato, a meno che non si volgesse a colui che qui, nella Valdelsa, con musa raggentilita e più soavemente pensosa, prosegue la nostra vecchia tradizione poetica, e che, or sono tre anni, con lui, proprio con lui, nel secondo centenario della sua morte, stringeva relazione amichevole, indirizzandogli un’epistola in versi18, di cui non sappiamo se più ammirare la originalità, o il garbo, o il lepore, o il profumo della più squisita urbanità.
Ed il Boeri (ve ne eravate già accorti che parlavo di lui) lo farebbe ardito a presentarsi agli altri, che gli darebbero maggior soggezione.
Perché voi siete tutti dotti; qualcuno anche troppo dotto. E Ippolito Neri, mediocre medico e mediocre poeta, ma pieno di buon senso paesano, penserebbe, a sua giustificazione, tra sé, che non bisogna mai esagerare.
(18) Cfr. il Supplemento al n.° 8 del Piccolo (gennaio-febbraio 1909), pubblicato per la inaugurazione, in S. Stefano d’ Empoli, presso la tomba del Neri, d’un ricordo, opera dello scultore Dario Manetti. Nell’epigrafe che io dettai per incarico del Comitato delle onoranze bicentenarie ad Ippolito, è un breve accenno alla leggenda delle capre:
QUISQUIS . ES . HVNC . LEGE . TITVLVM . HOSPES . QUEM . EMPORIENSES . BIS . VICIES POST OBITVM . MEUM . IAM . LVSTRIS . PERACTIS . A . D . XI . KAL . FEBR . AN . SAL . MCMIX . MIHI . PONENDUM . CVRARVNT – HEIC . EGO . HIPPOLYTVS . NERI . AVITO . SUM . TUMULATUS . SEPVLCRO . QVI . CVM . MEDICINAM . EXERCVI . TVM . NYMPHAS . NEMORA HEROES . AMORES . PIETATEM . IN DEUM . ITA . LYRICIS . MODIS . EXPRESSI . VT . ETRVRIAE . PRINCIPVM . COSMI . III . FERDINANDI . FRANCISCI . MARIAE . CARDINALIS . SVMMORUMQVE . LITTERATORVM . MEAE . AETATIS . HOMINUM . ALEXANDRI . MARCHETTI . ANTONII . MAGLIABECHI . FRANCISCI . REDI . ALIORUM . FAVOREM . ATQVE . AMICITIAM . MIHI . COMPARAVERIM – TVBAM . QVIDEM . EPICAM . IOCOSE . INFLAVI . CVM . CAPRAS . VIRVMQVE . CECINI . QVI . MINIATENSI . VRBE . NOCTV . EST . POTITVS – IVDICES . CRITICI . MEAM . LEPIDISSIMAM . ARTEM . INGENII . CELERITATEM . NATIVVM . QVEMDAM . CARMINIS . NITOREM . FACILEM . NVMERVM . QVA . SUNT . ANIMI . BENIGNITATE . LAVDANT – HAEC . HABVI . QVAE . TIBI . DICEREM . HOSPES . –
Traduzione di Andreina Mancini
Cfr. anche, nel Supplemento già ricordato, un’ altra graziosa poesia di G. BOERI Le Capre e Poggio al Pino.
A titolo di curiosità, ricorderò, qui in ultimo, la strofetta che qualche volta anc’oggi sentiamo ripetere, nel nostro contado, da chi, davvero o per ischerzo, vuol farla da bravazzo:
« Son Cantino della Valle
Con mill’ uomini alle spalle,
E se questi non son tanti,
Dietro a noi ce n’è altrettanti.. »
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