Farinata degli Uberti da Montaperti a Empoli

 

da: Il Piccolo 20 novembre 1921 numero 24

 

“O timonier d’Italia eterno, Dante…” ( G. Pascoli)

 

   La sera del 4 settembre 1260 l’esercito fiorentino che, forte di 30.000 fanti e 3000 cavalieri, sotto il comando del podestà Iacopino Rangoni aveva risalito la Valdelsa col proposito di schiacciare in Siena il ghibellinismo toscano, si sfasciava all’urto impetuoso della cavalleria di re Manfredi e dei fuoriusciti. Avevan reso fatale quella rotta memorabile l’inettitudine militare e la cieca baldanza dei capi fiorentini; forse, anche il tradimento.

   Firenze aveva chiamato alle armi tutti i cittadini dai 15 ai 70 anni, li aveva condotti fin sotto quella città che per la ” maledetta peste delle parti ” era sua nemica. Ma fra i malinconici colli tra cui Biena  e Malena discendono giù a portare le loro acque all’Arbia, il fiore delle milizie popolari rimane spento, il glorioso primo popolo, ” il popolo vecchio fu –  come narra Giovanni Villani  –  annullato e rotto”.

   Quando i cavalieri tedeschi, che si eran tenuti in agguato, piombarono di fianco ai Fiorentini stanchi da lunga e sanguinosa lotta, Bocca degli Abati tagliò la destra a Jacopo de’ Pazzi che reggeva l’insegna della cavalleria fiorentina. Allora i fanti si sparpagliarono, e sola rimase fino alla morte attorno al carroccio la guardia, comandata dal settantenne Giovanni de’ Tornaquinci.

   La fanteria fiorentina e dei collegati, riparatasi nel castello di Montaperti, cadde morta o prigioniera quasi tutta. Perduto il carroccio, perduti –  lamentò poi Guittone D’Arezzo  – ” la campana,  le insegne e gli arnesi”, perduti i bei castelli di Montalcino, Montepulciano, San Gimignano, Poggibonsi, Colle, Volterra e San Miniato.

   Il più grande sforzo dei Comuni guelfi di Toscana si era infranto in quel nefasto martedì di settembre in vista delle torri di Siena. ove garriva superba, in campo d’argento, l’aquila nera del re Svevo di Sicilia.

   Chi aveva più d’ogni altro contribuito a rintuzzare l’orgoglio fiorentino, ad abbassare il ” modo imperiale” della giovane repubblica? Presso le acque colorate di sangue, dell’Arbia,  dopo ” il grande scempio” fraterno, più d’ogni altro, d’ amaro contento, dovette esultare il vecchio cuore di Manente detto Farinata della schiatta ghibellina degli Uberti, il quale, da due anni bandito di patria dal popolo guelfo, da due anni aveva tramato insidie e stretto in suo tenace pugno le forze, le speranze e le ire della sua parte.

   Per suo stratagemma Manfredi aveva mandato maggior nerbo  di cavalieri, per sua astuzia i fiorentini avevano avventatamente affrettato l’assalto. A lui dunque spettava l’onore più grande della conseguita vittoria, a lui l’odio maggiore da parte dei vinti, ​a lui, progenie di vassalli longobardi, che aveva annullato, nel volger di un giorno, due secoli di storia del Popolo e del Comune di Firenze.

E Firenze,  con inaudita empietà, pregò dinanzi agli altari lo sterminio di quella stirpe ” molesta”.

 

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   Alla nuova della disfatta tremenda, narra il ricordato cronista, ” si levò il pianto di uomini e di femmine in Firenze sì grande, ch’ andava in fino al cielo, imperciocchè non aveva casa niuna Firenze piccola o grande, che non vi rimanesse uomo morto o preso “.

   Sbigottiti i guelfi, nobili e popolani, con le loro famiglie il 13 settembre fuggirono parte a Lucca, parte a Bologna. Fra gli esuli fu Brunetto Latini. I vincitori, il giorno 16 entrarono nella desolata città, il giorno dopo elessero Podestà il conte Guido Novello de’ Conti Guidi, e capitano della guerra il conte Giordano d’Anglona, vicario di re Manfredi; cominciarono subito a disfare molte case e a mettere in comune i beni dei Guelfi.

   Ma volendo il re di Sicilia le sue genti e il conte Giordano, parve necessario ai capi Ghibellini, prima che quelle masnade partissero, adunarsi per concordare i mezzi per conservare il predominio alla loro fazione e fare ” taglia”, cioè dividere fra loro carichi e spese. Quel “parlamento”, come lo chiama il Villani (VI,81), si radunò in Empoli sulla fine dello stesso settembre.

   Vi parteciparono Guido Novello dei conti Guidi, signore di Poppi in Casentino e di Modigliana, il conte Giordano d’ Anglona, i conti Alberti, i conti di Santa Fiora, gli Ubaldini e gli ambasciatori di Pisa e di Siena, fra i quali Provenzano Salvani, che Dante troverà tra i superbi nel primo balzo del Purgatorio.

   Detta nell’adunanza la volontà del re, tutti convennero che la vittoria ghibellina non poteva dirsi sicura finché rimanesse in piedi Firenze, guelfa  irriducibile. E specialmente i Senesi, cui Manfredi aveva promesso di innalzare al posto dell’odiata rivale, e i vari signorotti del contado, che speravano nella rovina di Firenze un accrescimento del loro potere, insistevano che la vinta fosse smantellata di mura e ridotta a borgora, “acciocché mai di suo stato fosse rinomo, fama né podere”.

   Il no imperioso che salvò Firenze dallo sterminio, uscì dalla bocca stessa di Farinata. Lo videro allora i collegati levarsi in piedi pieno di sdegno, come lo scorgerà il poeta ” ergersi ” pieno di disprezzo col petto e con la fronte fuori dell’arca infernale. Batté forte la spada al suolo, a tutti impose silenzio.

   Egli era – ce lo attesta Filippo Villani – ” di statura grande, faccia virile, membra forti, continenza grave, eleganza soldatesca, parlare civile, di consiglio sagacissimo, audace, pronto e industrioso in fatti d’arme”. Cominciò il suo concitato discorso con due rozzi proverbi frammischiati in uno, nel quale probabilmente voleva indicare la follia della proposta e la propria autorità:

 

 Come asino sape

 Così minuzza rape;

 E vassi capra zoppa

 Se ‘lupo non la n’ toppa.

 

    E proseguì minacciando che, mentre avesse vita, con la spada in pugno avrebbe difeso la sua patria. Stava per uscire dalla sala, quando il conte Giordano, per soffocare ogni dissenso, pensò altri modi per tener sottomesso il popolo fiorentino

   Così Firenze, la culla dell’arte e della rinascente civiltà italiana, fu salva; fu risparmiato il ” bell’ovile ” ove cinque anni dopo doveva nascere Dante, per l’atto magnanimo  del ” virtudioso e buono cittadino, che fece a guisa del buono antico Cammillo di Roma.

 

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   Così Giovanni Villani. E Fazio degli Uberti fa che Roma stessa, dinanzi alla magnanimità di Manente, pensi a Cammillo e a Scipione. Rodolfo Renier, che vide in Farinata l'” alma  sdegnosa ” più meritevole di stare vicino all’ Alighieri, aggiungeva che Farinata in Empoli sarebbe ottimo soggetto per un artista di vaglia.

   Poiché qui campeggia, come un atleta nell’arena, la figura monolitica del fuotuscito, non sui colli tra la Biena e la Malena sfocianti nell’Arbia, non, prima,  orditor di acuti consigli nelle diete di parte, non, dopo, alla battaglia del Serchio,  quando tentò invano di salvare  –  come lo dipinse Il Sabatelli  – Cece de’ Buondelmonti, suo avversario e prigioniero.

   Qui, fra le mura di Empoli, dove egli fece la gran difesa, mostrò, secondo le parole di Cristoforo Landino,” grandezza d’animo cesariana”; qui meritò  che, come narra il Vasari, Margaritone gli inviasse un crocifisso di legno in testimonianza di gratitudine per avere salvato la patria; qui meritò il monumento che Dante gli scolpi nell’eterno bronzo del suo Inferno, poiché nel petto di Farinata  –  calmate  le annose furie di parte –  qui si accese la gran fiamma d’amore verso la città madre.

   E Dante, che senti l’odio di quel magnanimo, ne sentì anche l’amore e i dolori e pregò riposo alla sua semenza travagliata.

   E se le due ” alme  sdegnose ” potessero di nuovo incontrarsi direbbe il poeta Divino all’ombra sorella: “ Messer Farinata, più che della storia tu vivi nella poesia. Perché Io fui, tu sei”

 

Emilio Mancini