EMILIO MANCINI

La PODESTERIA DI FRANCO SACCHETTI

A SAN MINIATO

      CASTELFIORENTINO

Tipografia Giovannelli e Carpitelli

1919

 

 

 

 

 

Il 18 luglio 1302 saliva il colle di San Miniato un vecchio sui sessanta, accompagnato da un notaio e da tre famigli. Nessuno storico ce l’attesta, ma è probabile non frinissero, ma addirittura strillassero le cicale intorno intorno, come in altro luglio a noi più vicino udì e vivacemente descrisse un giovane Poeta che qui fu ospite memorabilissimo, qui segnò i primi passi nel cammino dell’arte e della gloria.

« Come strillavano le cicale in quella estate della dolce Toscana! »(1)

In alto, sorgeva la bruna rocca sveva non più, lo dirò ancora con le parole del CARDUCCI,

« alabarda ghibellina eretta a minacciare il guelfo Valdarno »,

non più eccelso propugnacolo del libero Comune signore di trentaquattro castelli, poiché sin dal 1369 in luogo del leon bianco rampante in campo rosso sventolava, a sfida di Pisa imperiale, l’insegna gigliata della Repubblica di Firenze.

Tre ordini di mura degradanti ad anfiteatro con barbacani e torricelle cingevano la Terra, bello e forte arnese, veramente degno che pochi anni dopo, da una Lucia Trezzania vi sortisse gli oscuri natali il primo capitano del nuovo secolo, Francesco Sforza.

Alla volta della città saliva dunque il nostro viaggiatore, forte sbuffando per il solleone e per la grossa corporatura.

E’ da credere non cavalcasse per l’erta assolata un mulo o almeno non gliene capitasse un altro simile a quello maledetto che, tornando dai bagni di Lucca, quattro anni innanzi, tanto « s’erse ed annodò la schiena » da scaraventarlo sopra un mucchio di sassi: onde fu necessario che il disgraziato cavalcatore si recasse a farsi salassare a Pistoia e a Pescia, « dov’ebbe colpi più che San Bastiano, come cantò in un suo flebile sonetto.

 


Lettura fatta dal prof. dott. Emilio Mancini il 29 settembre 1919 nel Palazzo Municipale di S. Miniato, in occasione della XXVII adunanza generale della Società Storica della Valdelsa.

(1) CARDUCCI, Le « risorse » di San Miniato al Tedesco, e la prima edizione delle mie rime (in Opere, IV,16)


 

Poiché egli era anche poeta, e de’ migliori del suo tempo. Aveva cantato in un bizzarro  poema la Battaglia delle belle donne colle vecchie, aveva cantato d’amore e di cacce con una vena che, ispirata allo stil nuovo, preludeva alle strofe di Lorenzo e del Poliziano; aveva cantato gioiosamente:

 

Benedetta sia l’estate

Che ci fa sì sollazzare,

 

e forse de’ suoi versi giovanili si rammentava, tergendosi il sudore sotto le implacabili fiamme di quella giornata a mezzo luglio.

Egli era Franco Sacchetti di Benci, cittadino fiorentino, che veniva a prender possesso della Podesteria di San Miniato.

Già ambasciatore e priore della Repubblica, già Otto della guerra contro Gregorio XI, già anni 1385 – 86 podestà a Bibbiena, avrebbe fatto volentieri a meno del nuovo ufficio, se non vi fosse stato costretto da un nuvolo di avversità.

Ma quanto lo facesse a malincuore, lo mostrò in una lettera, scritta pochi anni dopo, nel 1396, Faenza, dove pure andò « a far  penitenza »,  e diretta a messer Agnolo Panciatichi podestà di Bologna:

 

« Puot’elli essere più stentata vita che la nostra, che abbiamo a correggere o a dare pena a’ delitti che tutti fanno tutti quelli d’ una città, e poi a comportare i vizi della nostra famiglia? Non siam noi suggetti al più minimo della corte?…

Io mi dolgo ch’ io sia venuto in stato tale, non per miei difetti, ma forse per altri peccati, che col capo cano peregrinando mi  convegna andar cercando cotale esercizio; ma ben si possono più dolere coloro che abondano in ricchezze o in mercatanzia, che per questo misero fummo si levano a volere essere Rettori: li quali se la prima il fanno per provare, si può credere, o se il facessono per penitenza; ma per altra cagione la vanno cercando, è segno di avarizia o di poco intelletto. Chi avesse  male istato, il quale credo che molti abbiano, puote essere scusato.

Altrimente è molto folle chi si leva dall’essere signore della sua famiglia con vita dolce e temperata, e vada non a essere Podestà, ma servo de’ rubaldi. E non conviene egli che noi abbiamo una continua sollecitudine se vogliamo onore?  Non siam noi i primi che ci leviamo, e gli ultimi che ci collichiamo?…. »

 

E terminava la sua lunga geremiade, affermando che mentre il Papa è il Servus servorum Dei, il Podestà poteva giustamente dirsi Servus servorum Diaboli …(2)

Certo il buon Sacchetti si sarebbe sentito consolare, se avesse saputo come, circa il 1311, Geri e Giovanni de’ Mangiadori, di quella superba famiglia magnatizia, ond’uscì il « franco  ed esperto cavaliere messer Barone » che Dino Compagni annoverò tra i combattenti di Campaldino, aveva teso agguato all’Alpe di Bologna ed ucciso per vendetta Panzanello da Cremona (3) o come, a metà del secolo, la stessa famiglia dalle mani del podestà Guglielmo Rucellai aveva strappato certi masnadieri condannati a morte, e poco mancò non disfacesse la parte popolare.

E gli stessi Mangiadori dettero a vedere ch’eran capaci di fare anche peggio, quando, quattro anni dopo l’arrivo del Sacchetti, fatta un’irruzione improvvisa nella Terra, trucidarono il Vicario di Firenze, Davanzato Davanzati e ne gettarono il cadavere dalla finestra.

Certo qualche cosa della natura aspra e fiera degli abitanti del luogo doveva sapere il Sacchetti stesso  che in una sua novella (158), scriveva:

« Per la diversità degli uomini di quello e per lo malo reggimento dei rettori, rade volte interviene che ai più di questi rettori non fosse fatta vergogna, e talora tanta, che talora se ne veniano in camicia, e talora erano presso che morti. »

 


(2) I Sermoni evangelici, le lettere ed altri scritti inediti e rari di F.Sacchetti raccolti e pubblicati con un discorso intorno la sua vita e le sue opere per OTTAVIO GIGLI, (Firenze, F. Le Monnier, 1857, p. 238-39)

Coi lamenti di un Podestà novelliere si raffrontino quelli di un  « gonfaloniere bernesco » di ANTONIO  GUADAGNOLI. (Cfr. G.STIAVELLI, A.G. e la Toscana dei suoi tempi, Torino, 1907, p.340)

(3) G. Rondoni, Il franco ed esperto cavaliere Messer Barone de’ Mangiadori   (in Archivio storico italiano, 1882, t. X, disp.VI, p.76). Dello stesso autore v. anche le utili Memorie storiche di San Miniato al Tedesco (San Miniato, M. Ristori, 1877).

Anche IPPOLITO NERI nel suo poema eroicomico La presa di Samminiato (I, 9 e 10), chiama i Samminiatesi del sec. XIV  « gente sgherra intrepida e sicura, la gente più fiera e più arrogante. »


 

Buoni incoraggiamenti davvero per un povero Podestà sul punto d’entrare in carica! Ma non lo affliggiamo con malaugurosi ricordi, tanto più che il gaio Novellatore si crucciava di esser bersagliato dalla sfortuna e di apportatore di sciagure egli stesso. (4)

 


(4) I Sermoni evangelici ecc. p.220


 

I primi giorni di residenza non furono lieti.

 

« Io sono Podestà a San Miniato – scriveva il 27 agosto all’amico Michele Guinigi di Lucca – e di quaranta dì ch’io ci sono stato, nel principio la maggior parte stetti ammalato. »

 

E messosi a lamentare i tristi tempi che allora volgevano, usciva ad ammonire:

 

« In questa brevissima vita nessuno bene si può avere,  sanza amore e pace, e tutti quanti ci possiamo stare alla larga, e nessuno ci cape, perché la donna del Demonio signoreggia, e con superbia, invidia e avarizia ciascuno s’arma.  »

 

Pure da San Miniato, il 12 ottobre Franco mandò due sonetti ed una lettera ad un amico ch’egli caldamente ammirava, Pietro Gambacorti « magnifico e circunspetto signore » di Pisa. Il secondo sonetto così chiudeva:

 

E voi, Pietro, in sulla ferma pietra

Tenete il soglio d’ ogni ben dotato,

Sicché Pisa può dir:  ben donna sono.

Io, con la mente che vostra st impetra,

Podestà son venuto a San Miniato,

Sol per appressimarmi al vostro sòno.

 

Anche in questa lettera il Sacchetti è molto accorato: gli pare che il mondo sia giunto all’ ultimo fine, già teme che « colui che dee sonare la tromba non se l’abbia già recata in mano », motivo questo, del giudizio universale imminente, assai caro al nostro Poeta; vede le genti governate più da rattori che da rettori, e non trova esempi di civica virtù se non in « una terra seminata nell’acqua », Venezia, che pure da novecento anni, egli dice, « è stata ferma nel suo saldo reggimento; vergogna di quelle che si chiamano terre ferme…. e sono sì inferme che alcuna fermezza non hanno.  »

Ora avvenne che di lì a nove giorni messer Pietro Gambacorti,  tradito dal Cancelliere degli Anziani, Jacopo d’Appiano, cadde ucciso, e Pisa uscì dalla lega fiorentina e passò ai Visconti: un duplice dolore trafisse l’animo del nostro Podestà, ch’era amicissimo del Capitano del popolo pisano ed era guelfo irriducibile, nonostante la sua tremenda guerra al papa Gregorio XI.

Alla lettera sopra riferita, Franco aveva pensato di unire un nuovo sonetto: lo scrisse lo stesso giorno 12 ottobre, ma avendolo lasciato sul desco, la sera, andato per correggerlo e spedirlo, non lo trovò più, per quanto lo cercasse anche il giorno seguente sino a nona. Ne scrisse un altro, ma anch’esso andò smarrito.

Allora si mise a comporre il terzo e non si alzò finché non l’ebbe chiuso nella lettera e consegnato a Giuliano Gambacorti, che era allora venuto a San Miniato, perché lo recasse a messer Pietro, di cui era figlio naturale. Il Gambacorti il 21 ottobre miseramente periva.

Il 6 novembre, volendo Rinaldo Gianfigliazzi, allora Vicario, fare un’esecuzione corporale, richiese al Podestà, com’era d’ uso, alcuni fanti, nell’armare i quali, spiccandosi certi guanti di ferro attaccati in alto circa sei braccia, in uno di essi si trovò tutto aggrovigliato uno dei sonetti smarriti.

Il Sacchetti volle serbar ricordo di questa cosa come « strana e  augurio secondo i Romani »  e si sentì l’estro di scrivere ancora un sonetto, sempre in deplorazione del decadimento morale di questo mondo:

 

Gentilezza e virtù son nella mota,

Ciascun villan di signoria vuol segno…. (5)

 


(5) Ivi, pp. 200-209


 

Passati i primi quaranta giorni, durante i quali, come si è detto, stette malato, Franco, rimessosi in salute, si pose ad esercitare il suo arduo ufficio con quell’impegno, quella prudenza ed equità che egli era solito dedicare ne’ pubblici affari.

Avvenne probabilmente a San Miniato quel grazioso casetto a cui allude nella nov. 77.

Un terrazzano gli venne a domandare di grazia una cosa che solo con vergogna potevasi concedere.  La negò.

Allora un tale avvicinatosi, gli disse:

 

« Messer lo podestà, voi avete perduto una lepre, perocché colui che non avete servito in quella sua domanda, è uno buon cacciatore, ed area disposto di mandarve una lepre, se voi l’ avereste servito. »

 

Franco rispose:

 

« Se m’avesse data la lepre, io l’avrei mangiata e patita, ma  la vergogna non si sarebbe mai patita. E così è veramente, comeché io mi confesso esser in ciò peccatore come gli altri; ma egli è una gran miseria, che una piccola cosa che all’appetito diletti e dura un attimo e subito è corrotta, sottoponga e vinca la ragione d’onore che dura sempre. »

 

E qui il nostro Novelliere narra di quei tali che in una città della Toscana cercarono di corrompere il giudice, uno donandogli un bue, l’altro una vacca, e vinse il piato quest’ultimo, forse perché

 

« la vacca, quando fu donata, era pregna e, in quel tempo che si fece la sentenza, fece un vitello. »

 

Di che sdegnato il Sacchetti, vedendo che in molti Comuni « non si può aver ragioni, se lepri o caprioli o porci selvatici non compariscono, » afferma che

 

« farebbe innanzi un suo  figliolo cacciatore che legista. »

 

Ma non si attenne alla promessa, poiché troviamo che suo figlio Niccolò, che fu Gonfaloniere di Giustizia e due volte Priore, resse dal 1° settembre 1418 al 28 febbraio 1419 il vicariato di Certaldo. (6)

 

*

   *               *

 

Ma veniamo ormai al fatto di gran lunga più importante che rende degna di memoria nella storia delle lettere italiane la Podesteria samminiatese di Franco Sacchetti. E’ dagli storici della nostra letteratura, dietro le sagaci osservazioni del GASPARY, stabilito quasi per certo che il Trecentonovelle venne qui iniziato, come si rileva da varie testimonianze cronologiche desunte dai racconti stessi e che io non starò a ripetere, e come asserisce lo scrittore medesimo, là dove dice (nov. 77):

 

« Io era podestà d’ una terra, dov’io descrissi le predette novelle … »(7)

 

Qui dunque Franco, in una specie di tregua tra gli antichi ed i futuri affanni, riandando la sua vita sbalestrata dalle più avverse vicende, evocò le varie costumanze conosciute, i casi molteplici che aveva udito o veduto nelle sue peregrinazioni.

 


(6) Niccolò di Franco Sacchetti fu Priore di Firenze nel 1407 e nel 1426, Gonfaloniere di Giustizia nel 1419. Per la nomina a Vicario cfr.MICHELE CIONI, I Vicari di Certaldo  in Miscellanea storica della Valdelsa, 1905, n. 37, p. 187.

(7) A. GASPARY, Storia della letteratura italiana (trad.V. Rossi), Torino, Loescher, 1891, vol. II, 67. LETTERIO DI FRANCIA, F. Sacchetti novelliere, Pisa, Nistri, 1902, pp. 87-88. E’ molto probabile che il Sacchetti componesse, anche prima del 1392, qualche novella, che poi incluse nella raccolta.


 

E audacemente, benchè « uomo discolo e grosso », si mise dietro le orme del nostro grande Certaldese, per sollevare agli altri ed a sé l’animo stanco dalle presenti tristezze, rifugiandosi con nostalgico desiderio nel porto consolatore delle memorie.

Là il vecchio cuore, come ai tempi lontani delle festose ballate, degli agili eleganti madrigali, si sentiva più sano e vigoroso, quasi lo ravvivasse un fiotto del sangue giovanile, ed ispirava le baldanzose parole del proemio:

 

« Tra molti dolori si mescolino alcune risa…. »

 

Apriamo il libro che raccoglie le superstiti 223 novelle del nostro Podestà, dal De Santis chiamato

 

« il più candido e simpatico scrittore del Trecento. »(8)

 


           (8) F. DE SANTIS, Storia della letteratura italiana, (1a ed. Milanese, a cura di P. Arcari), vol. I, 285


 

Leggiamo qualcuno di quei racconti stesi, disse il Borghini, « con uno stile più puro e familiare che affaticato o ripulito e, come allora si diceva, azzimato;»  ammiriamo la prosa volgare, che non è quella plebea dei Ciompi né quella solenne latineggiante, dismesso il lucco boccaccesco andare attorno col farsetto delle mezzane genti, spontanea e naturalissima, tra il mercato e la taverna, tra i castelli dei signori e i palagi del popolo libero, tra i mercanti e i condottieri, nelle sacrestie e nelle corti, tra i buffoni e gli uomini insigni per sapere o potenza.

E a dire il vero, il fiorentino stile umilissimo sembrò più a suo agio nella veste che il savio Franco gli mise.

 

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Le novelle che si riferiscono a San Miniato sono tre, mentre una quarta ci porta al vicino borgo di Santa Gonda.

In San Miniato al Tedesco « che oggi si chiama fiorentino » – scrisse il nostro Novelliere con compiacimento di guelfo vittorioso (nov. 113) – avvenne una volta che un proposto ricco quanto avaro, in un venerdì santo, mentre andavan processionando di chiesa in chiesa devoti e compagnie di battuti, visto il suo altar maggiore ben fornito di denari, pensò di raccoglierli e di portarli via.

Ma sopraggiungendo a presentare l’ offerta una brigata di flagellanti, il proposto credette opportuno lasciare i denari e ritirarsi, non senza prima aver messo a guardia un chierico. Uno dei battuti, adocchiato il gruzzolo,

 

« facendo vista di baciare l’altare, pose la bocca aperta su’ detti danari e quanti con la bocca ne poteo pigliare, tanti ne pigliò; e data la volta, seguendo gli altri, s’ uscio fuori.»

 

Tornò il proposto e vedendo il mucchio scemato anziché accresciuto, se la rifece col povero chierico, invano arrovellandosi per saper qual « viaggio avessono fatto detti  denari » né certo immaginando che si erano convertiti in buoni capponi.

E’ verosimile che il Sacchetti raccogliesse questo fatterello a San Miniato come ivi avvenuto; ma lo si racconta di altri luoghi di Toscana, con una variante che fa dire ad un prete diffidente e più scaltro:

 

« Campi, passi e non baci! »

 

Più importante e storicamente vero è il fatto della nov. 135, accaduto l’anno innanzi alla venuta del Sacchetti a San Miniato, nel tempo che i Fiorentini avevan guerra col Conte di Vertu.

Anzi egli attesta che il tratto di generosità ricambiata

 

« non è mill’anni che fu, ma è sì piccolo tempo che io ho favellato al  buon uomo, a cui questa novella…. avvenne; il quale fu Bertino da Castelfalfi, uomo di buonissima condizione e agiato contadino e, secondo suo pari, ricco di bestiame.»

 

Un saccardo infermo ed affamato, nel mercato samminiatese era stato soccorso da Bertino con atto di cristiana carità. Sventura volle che il pietoso villico fosse, qualche tempo dopo, preso prigione da certa gente d’arme e menato a Casole in quel di Volterra e là

 

« nelle gambe sconciamente inferriato. »

 

Era fra i soldati nemici quel bagaglione già prima beneficato, il quale seppe destramente liberare il suo antico benefattore e ricondurlo sano e salvo alle pure aure del colle di Castelfalfi.

Cosa meravigliosa a udire, esclama il nostro Podestà, è la virtù di questo saccardo.

 

« Io per me credo, soggiunge entusiasmato, se fosse stato de’ maggiori Romani, sarebbe degno di memoria. »

 

Più notevole ancora, sotto il rispetto storico, la novella 158. Il fatto ivi narrato risale al tempo che San Miniato era in sua libertà, cioè prima del 1346, quando questo Comune si dette a Firenze per cinque anni.

Inclino a riferire il fatto stesso, d’accordo col mio amato ed illustre maestro, prof. Rondoni, agli anni ’31 o ’35, a meno che non si voglia salire sino al 1340, nel quale anno pure scoppiò il contagio in Toscana.

Era stato nominato Capitano un fiorentino, messer Soldo di Ubertino Strozzi,

 

« uomo piacevolissimo e saputo, e non abbiente, ed era forte gottoso, e quasi di ciò perduto. »

 

Sulle prime titubava ad accettare o no lo spinoso incarico; il bisogno lo tirava, ma d’altra parte non voleva andare a morire:

 

« Io sono vecchio – diceva – e sono attratto di gotte; li Sammimatesi hanno fatto sì al tale e sì all’ altrettale; egli è meglio ch’ io  rifiuti. »

 

Ma alla fine accettò, pensando di poter riparare coll’astuzia e cogli accorgimenti della sua piacevole loica alle « furie e alle sètte dei Samminiatesi.» Infatti egli seppe barcamenarsi abilmente nello scoglioso mare delle ire partigiane e destreggiarsi tra le propotenze di messer Bindaccio Mangiadori, che voleva salvo un tale da Colligarli che meritava d’esser decapitato, e quelle dei Ciccioni che lo volevan morto.

Alla fine la giustizia ebbe il suo corso, con gran dispetto di Bindaccio, che n’avrebbe certo tratta vendetta, se una pestilenza non fosse piovuta a proposito a salvare il Capitano.

Questi, per tener lontani gli irrequieti cittadini, teneva quando sei, quando otto gonnelle in una sala dei fanti, e al sopraggiungere del notaio della rassegna, messer Soldo diceva mostrando le gonnelle:

 

« lo ne  feci sotterrare stanotte quelli che voi vedete; andate giuso alle letta, e troverete assai che hanno il gavocciolo e qual sta male e qual si muore.»

 

All’udir tali parole, il rassegnatore parea cacciato da mille diavoli, e turandosi il naso, si fuggìa fuori del palagio, e andavasi con Dio.

Così l’accorto Capitano terminò il suo ufficio, riportando a Firenze la sua pelle e la sua gotta, forse la borsa piena e molto onore, secondo il Sacchetti, e secondo moderne ricerche, anche la moglie Samminiatese, di nome Niccolosa che sappiamo morta nel 1343 e seppellita in S. Maria Novella.

Bindaccio depose il corpo ed i crucci violenti negli avelli della stessa chiesa il 9 Luglio 1363, presso alle salme di Lodovico, di Blasio e d’ altri de’ Ciccioni, pacificati tutti sotto le grandi ali del perdono di Dio. (9)

 


(9) L. DI FRANCIA, op.cit.,pp. 138-9


 

Notissima è la novella dei ciechi, i quali in un’osteria della vicina Santa Gonda, nel partirsi la moneta venuti in litigio per l’inganno di un burlone fiorentino, si scambiarono tante legnate che, se non era già stata inventata, dovette nascere allora la frase, se non l’uso, di darsi bòtte da orbi.

Così mazzicati fra loro e dall’oste, proseguirono tristi e dolenti il cammino per Pisa, dove per ogni borgo cantando le intemerata, si recarono alla festa di Nostra Donna.

 

« E perchè, come all’essere ciechi, erano tutti laceri dalle bastonate – conclude il Sacchetti – fu loro fatto a Pisa tre cotanti limosine, onde ciascuno di quelle mazzate,  non che se ne desse pace, ma e’ non avrebbon voluto non averle per tutto il mondo, solo per l’utilità che se ne vidono seguire. »

 

Tante sono le vie della Provvidenza!

Questa novella svolge un motivo tradizionale, già narrato, forse per primo, in Francia dal COURTE BARBE nel fableau intitolato Les trois aveugles de Compiègne, e diffuso anche in Sicilia, come dimostrano alcune fiabe raccolte dal Pitrè.

Il nostro Novelliere attinse dal favolello, come qualche critico propende a credere, o dalla tradizione orale?

Forse da quest’ultima derivò, mentre il fableau prosegue, il Nostro ne trae un racconto a parte e l’attribuisce al Gonnella.(10)

 

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*             *

 

Come la gentilezza Vostra, Signore e Signori, ha permesso che vi esponessi, benché anch’io « uomo discolo e grosso », quelle che potrebbero dirsi le « risorse » sanminiatesi di Franco Sacchetti, così lasciate che io, a questa Città legato da affettuose e grate memorie(11), manifesti il desiderio che l’ ultimo dei trecentisti, questo vero cittadino di Repubblica, che servì la patria col consiglio, la difese con le armi, la corresse con la giustizia, l’adornò di religione e di buon costume, la illustrò con l’ arte (12) sia, se pur modestamente, ricordato fra queste mura.

 


(10) E. Camerini, Profili letterari, Firenze, Barbèra 1870, p. 510.

(11) Ivi, p. 267. La novella dal ciechi di S. Gonda è la 140. Una burla simile è raccontata dal senese Alessandro Sozzini e riportata dal MANNI nelle sue Veglie piacevoli (Firenze, 1516) t.VII, 9.

A proposito di ciechi in novelle cfr. Castore e Polluce di R. FUCINI in All’aria aperta. Nella nov. 230 è ricordata la Madonna di Cigoli.

(12) L’oratore insegna lingua latina e greca nel Ginnasio comunale di san Miniato. (N.d.D.)


 

Egli ebbe fra noi amici carissimi due rimatori, ser Matteo da San Miniato e ser Angelo da San Gimignano, ed un teologo celebrato a’ suoi tempi, maestro Francesco da Empoli de’ Minori conventuali (13).

Qui dove Franco Sacchetti con senno di ottimo cittadino, di « uomo stampato all’antica in tempi corrotti » (14), fece ragione al nostro popolo, qui dove nacquero le mirabili novelle, ornamento e vanto di quell’ idioma che  su questi colli amenissimi più puro risuona, sia scolpita l’arme d’argento di tre bande di nero della famiglia che Dante rammentò fra quelle del primo cerchio(15), sian segnati l’anno della memoranda Podesteria ed il nome di colui che felicemente fu detto:

 

Vivo fonte gentil del bel parlare.

 


(13) Un breve accenno su padre Francesco dette LUIGI LAZZERI nella Storia di Empoli (p.130), dicendo che predicò e disputò a favore dei Monti Pii, provando esser lecito l’interesse dei medesimi.  Ne parla SCIPIONE AMMIRATO nelle Istorie fiorentine, libro XI, p. 562, all’anno 1353. Morì il 12 ottobre 1370, come attesta un sonetto del Sacchetti pubblicato dal POGGIALI nella serie dei Testi di lingua. Il nostro Novelliere lo dice Provinciale eccellente e venerabile e lo ricorda nel 36° dei Sermoni evangelici. (Cfr. I sermoni ecc. pubbl. da O. GIGLI, p. XXXIII sg.)

(14) De Sanctis, op. cit., 1, 283.

(15) Dante, Paradiso, XVI,104. Ho inoltre utilmente consultato gl’ importanti studi di LUIGI FORNACIARI, F. Sacchetti (in Nuova Antologia, ottobre 1870); G. CARDUCCI, Musica e poesia nel mondo elegante italiano del secolo XIV (in Opere, XX, 221-2); G. VOLPI, Il Trecento, (Milano, Vallardi, pp. 145 sg.); O. BACCI, Saggi letterari, (Firenze, 1898).

Sugli ordinamenti civili del Comune Samminiatese nell’anno stesso che fu Podestà il Sacchetti, leggasi un chiaro cenno nell’articolo del dott. FRANCESCO M. GALLI ANGELINI, Agostino da Colle Connestabile di S. Miniato (in Miscellanea storica della Valdelsa, 1919, n. 79, p. 150).

Il Sacchetti, ritornato a S. Miniato come Vicario il 5 marzo 1399 (stile nostro 1400), secondo il dott. A. ARUCH (Ricerche e doc. sacchettiani, estr. dalla Riv. delle Biblioteche e degli Archivi, XXVI, nn. 1-8, p. 11 n.), vi sarebbe morto prima del 6 settembre di quell’anno.


 

( FINE)