PER LA FACCIATA DELL’INSIGNE COLLEGIATA DI EMPOLI

 

Un dovere – Brevi cenni storici – Gli studi e Ie pratiche per il  restauro

La perizia  dell’ arch. Castellucci – L’aiuto del Governo

di Emilio Mancini

 

Dal Piccolo del 14/8/1910

 

Il monumento più antico e più insigne di Empoli, la medioevale Pieve di S. Andrea, sotto le cui triplici navate pregò la pia contessa Emilia e, forse, dopo il sangue che arrossò l’Arbia, fremé assetata di vendetta l’ira ghibellina, esige che al più presto si ponga riparo alle offese che il tempo inferse alla marmorea facciata.

Empoli va ogni giorno  abbellendosi : si aprono nuove ed  ampie vie, si allineano lunghe file di palazzine eleganti; si abbattono le vecchie, umili casette; le botteghe prendono un aspetto più signorile…..

Si dovrebbe dunque abbandonare a un esiziale deperimento, condannare quasi a morire di consunzione, la facciata vetustissima, che è  la gloriosa testimonianza della magnificenza dei nostri maggiori, e porta l’aureo suggello dell’Arte?

L’anima moderna, mentre è aperta ad ogni audacia, oggi come non mai volge lo sguardo al passato, quasi al fido rifugio dove il pensiero si queta, quasi alla soave sorgente che un tempo tolse l’arsura ed il cui mormorio si ripete in un’inestinguibile eco.

Ed è bello vedere, nell’ età affannosa che volge, quell’umanità stessa che si affatica in sempre nuove conquiste, soffermandosi con pio fervore dinanzi ai ruderi che portano le impronte di remote civiltà, studiare gli sparsi vestigi d’altri popoli e d’altre epoche, circondare di filiale reverenza le memorie antiche ….

Così cantò il poeta che un giorno, traendo per un nuovo arduo cammino, ma segnato dai Fati, Enea salvava dalla rovina i domestici Penati e il venerando padre…

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La facciata della Pieve di S. Andrea – come attesta l’epigrafe scolpita nell’architrave – fu costruita nel 1093, opera praepollens per l’arte di un esimio maestro, di cui disgraziatamente non ci è stato tramandato il nome.

Essa, sia nel concetto generale sia nei particolari è una imitazione e quasi una copia di quella di S. Miniato al Monte, salvo nella nostra una maggiore semplicità che rivela sempre più il tramonto del classicismo e la prevalenza sempre crescente delle  norme romaniche.

Questa imitazione dall’una facciata all’altra è dovuta ai legami che vi erano tra il Monastero di San Miniato e la Pieve empolese, leggendosi in un diploma autentico del Vescovo Ildebrando come esso doni al Monastero suddetto, fra  le  altre  cose « curtem quoque de Impoli cum suis pertinentibus , quae  est sita infra territorium de Plebe S. Andreae ».

La facciata della Chiesa di Empoli appartiene alla scuola  romanica-fiorentina, della quale si può riconoscere l’archetipo nel Battistero di San Giovanni.

Ma la sfera d’azione di questa scuola fu limitatissima: in esiguo numero e in ristretti confini rimangono gli esemplari di quest’arte, tanto che l’antica pieve nostra segna l’estremo limite sino al quale si sia estesa la scuola romanica di stile fiorentino.

Gli altri monumenti di questa scuola d’architettura appena si scostano dalle mura di Firenze: così la Badia di Fiesole e la Chiesa dei SS.Apostoli, anteriori al Mille; così la Chiesa di San Miniato al Monte, la Tribuna di S. Giovanni e le Chiese di  S. Salvatore al Vescovato  e di S. Iacopo Soprarno, posteriori al Mille.

Disgrazia volle che la facciata della nostra Pieve non giungesse a noi quale fu concepita dall’esimio e ignoto maestro del secolo XI. Il secolo XVIII, non comprendendo più il severo e gagliardo spirito medioevale pretese di ingentilire le moli famose, erette nel primo fiorire della Rinascenza e, se non le lasciava miseramente cadere, le imbastardiva sconciamente o le imbellettava di calcina o di bianco.

Il cosiddetto buon gusto settecentesco non risparmiò nemmeno la nostra Collegiata, la quale nel 1738 dovette adattarsi al deplorevole raffazzonamento  dell’Architetto Ruggeri, perdere lo svelto  contorno di basilica a tre navate ed assumere la pesante forma quadrata, che ha presentemente.

Nonostante l’infelice riforma, rimane tanto dell’antico che il cav. dott. Emilio Marcucci ne tentò il restauro e compose un disegno che per la prima volta fu pubblicato nei Ricordi d’Architettura (1880, fasc. V tav. IV) e che si può dire nel complesso ben riuscito, nonostante alcune osservazioni mossegli dal Nardini Despotti Mospignotti nel suo bel libro Il Duomo di S.Giovanni (Firenze, 1902, pag.154).

Questa, brevemente, la storia del nostro maggior Tempio.

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L’Opera di S.Andrea, specialmente per l’interessamento assiduo del suo Presidente, cav. dott. Gennaro Bucchi, fin da dieci anni fa, considerando le precarie condizioni della facciata della chiesa, si occupò del suo restauro e si rivolse per consiglio a persone della massima competenza, poiché non si voleva, con un lavoro precipitoso, rendere un cattivo servizio all’arte e alla storia e recar forse una nuova irrimediabile offesa a un  monumento di sì alta importanza.

Abbandonata fin da principio l’idea troppo magnifica ma inattuabile di un ripristino generale all’antica figura, si convenne nella necessità di restaurare, cioè di rafforzare la facciata qual è attualmente per rimediare i guasti che vi si riscontrano ed arrestare l’opera distruggitrice del tempo.

Fu quindi dato incarico, or sono circa quattro anni, all’illustre prof. Giuseppe Castellucci, architetto capo dell’Opera del Duomo di Firenze e autore d’importantissimi lavori, come – per non parlare che dei principali – i restauri della Chiesa di S. Francesco a Fiesole e delle case di Dante a Firenze, la ricostruzione completa della Cantoria di Luca della Robbia (Dott. B. Marrai,  Le Cantorie di Luca della Robbia e di Donatello Firenze, Tip. Domenicana, 1907), il ritrovamento del fonte battesimale di S. Giovanni (Inf. XIX, vv.16-20), la ricostruzione e l’abbellimento della villa Palmieri, la storica villa che la tradizione vuole che sia stata dal Boccaccio descritta come scena del suo Decamerone.

La scelta dunque, come si vede, non poteva essere migliore, poiché il prof. Castellucci è un artista di larghissima fama, uno studioso coltissimo e geniale dell’antichità: è quel che si dice uno specialista, e qui mi sia permesso notare che i coscienziosi restauratori moderni non manomettono i monumenti affidati alle loro cure, non travisano, non impongono i gusti loro o altrui: essi cercano col massimo scrupolo di conservare tutto ciò che è staticamente conservabile, accettando, per dirla con frase diplomatica, come un « fatto compiuto », quelle impronte che il succedere degli anni vi ha lasciato, rispettando quasi le rughe del monumento come venerabili segni della sua vetustà.

Con tali idee l’arch. Castellucci, per vario tempo distratto da altre cure, stendeva recentemente un’accurata perizia di massima, ascendente a circa L. 7500, alla quale deve essere aggiunta la previsione di 1000 lire circa, qualora si voglia ripristinare la finestra centrale, per la cui ricomposizione rimangono tutti gli elementi.

Per agevolare il compito dell’opera di S. Andrea, sarebbe desiderabile che il Ministero della Pubblica Istruzione, al quale spetta d’autorizzare il restauro, contribuisse, almeno per una modesta parte, alla spesa presunta.

Conoscendo lo zelo con cui il governo ha seguito in questi ultimi anni seguito le manifestazioni dell’Arte e incoraggiato il sollecito, amoroso recupero degli antichi monumenti, che sono la testimonianza più splendida della nostra civiltà e l’ornamento più prezioso e più invidiato della penisola, è lecito sperare che un equo concorso non verrà negato, tanto più che già in varie occasioni il patrio Governo non ha lesinato il suo contributo a proposito di lavori occorsi nella Pinacoteca cittadina.

Noi, per l’amore che portiamo alla nostra città e all’arte, auguriamo che l’Opera di S. Andrea sollecitata dal suo Presidente, il Proposto cav. dott. G.  Bucchi, e aiutata con opportuna misura dai supremi tutori del nostro patrimonio artistico, possa ben presto por mano ai lavori e conservare ancora nei secoli, nel niveo candore dei marmi, il sacro tempio, che più di ogni altro serba il ricordo della basilica biancheggiante in cima a San Miniato al Monte; – l’antica Pieve dove Aemilia comitissa pregò e, forse, la rude parlata dell’Uberti, carità di patria spirando, infrenò l’ira che voleva morta Firenze.