GARIBALDI IN VALDELSA NEL 1848
Da: La Miscellanea Storica della Valdelsa, n.131-132, anno 1937
Nel cuore dell’estate di quel fatale 1849 che spense nel sangue il primo ardore della riscossa italiana, Giuseppe Garibaldi usciva da Roma, con 3000 volontari cui aveva promesso “ fame, sete, marce, battaglie e morte”.
Dietro di lui fumavano i ruderi gloriosi delle ville gianicolensi, dinanzi brillava ancora una speranza: soccorrere Venezia dove il vecchio Leone asserragliato mandava gli ultimi ruggiti.
Ramingo fra le insidie di quattro eserciti, rifugiatosi nella libera terra di San Marino, il Generale sciolse il suo esercito stremato e con duecento compagni scese a Cesenatico, da dove si diresse su Venezia.
Sorpreso dalle navi austriache in crociera sbarcò sulle coste di Magnavacca e si nascose nella pineta di Ravenna. Qui nella fattoria Guiccioli alle Mandriole il 4 agosto spirava l’anima eroica Anita, la fedele compagna, che al suo fianco aveva combattuto in Uruguay e nell’assedio di Roma.
Il Generale è costretto ad abbandonare il caro corpo insepolto e proseguire la corsa affannosa oltre la pineta dantesca di Chiassi attraverso la Romagna e l’Appennino, per la Toscana occupata dagli Austriaci sino al lido Etrusco di Follonica, fino al mare, alla salvezza, alla libertà, alle glorie future.
La pista segreta dell’Eroe sulla via ardua e lunga è tracciata da poche anime umili e generose. Unico fido rimasto a fianco dell’Eroe era una silenziosa e scarna figura di soldato, il capitano Leggero, già suo commilitone nelle imprese di Montevideo e del Salto di Sant’Antonio, poi a Morazzone e a Roma.
Quando il 2 luglio Garibaldi uscì, vinto e non domo, dalla città eterna, il capitano Leggero era ancora all’ospedale, ma appena poté con le sue ferite ancora vive seguì le orme del suo Generale, lo raggiunse e lo accompagnò, novello Acàte, sino a Cesenatico, sino alla Maremma Toscana poi a Porto Venere ed infine nell’esilio di Tangeri, con dedizione assoluta, circondandosi di silenzio e di mistero per disdegno di nomea e di profitto.
Per dieci anni scompare; quando riapparirà, egli sarà ridotto un troncone miserando, tanto in patria e fuori avrà combattuto e sofferto. Chi era Leggero? Garibaldi nelle sue Memorie lo ricorda con lode affettuosa, ma lo cita regolarmente sbagliando il cognome, perché ormai lo pseudonimo, certamente originato dall’agilità mostrata nei combattimenti, aveva sopraffatto quello di famiglia.
L’Abba nei suoi « Ricordi Garibaldini » dice:
« Luigi Cogliolo … riapparirà nel 1860 con la sua mano già mutilata di tre dita in quella ritirata, per combattere e di bel nuovo sparire ».
Egli era Luigi Culiolo, nato all’Isola della Maddalena nel 1813, mozzo nella marina sarda, poi iscritto alla « Giovine Italia », profugo in America, combattente in Lombardia, capitano d’artiglieria nel 1849; il 30 aprile lega il suo nome alla carica leggendaria del colonnello Masina al Casino dei Quattro Venti, torna in America, combatte per la repubblica di Costarica, dove lascia un braccio; è ancora a fianco di Garibaldi nei suoi tentativi su Roma.
Morì alla Maddalena nel 1971, avvelenato dai funghi: il destino maligno che l’aveva fatto vivere come un cavaliere degno delle ottave dell’ Orlando furioso, lo fece morire come un eroe del Morgante. Un libro recente (1) narra quanto si è potuto conoscere di questo ufficiale garibaldino, taciturno ed ardente, l’uomo che attraverso la trafila romagnola e toscana sarà quello dalla barba bruna accanto all’uomo dalla barba bionda.
Dalla Romagna dunque i due profughi, per la via di Forlì, giungono a Modigliana, dove un ardito e pio sacerdote, Don Giovanni Verità, li ospita di nascosto per otto giorni nella sua canonica e predispone la via per guidarli lungo i monti di S. Marcello e del Frignano, in Piemonte. Ma poi l’inclemenza insolita della stagione e certe difficoltà fecero piegare i due verso la valle del Bisenzio.
(1) UMBERTO BESEGHI, Il maggiore Leggero e il trafugamento di Garibaldi. (Ravenna, ed. S.T.E.R.M. 1934)
La sera del 25 agosto essi si gettarono in Toscana come in un paese meno vigilato, sebbene vi si accampassero a sorreggere Il Granduca gli austriaci, e il Guerrazzi meditasse gli errori della sua tumultuosa dittatura nel maschio di Volterra.
Al Mulino di Cerbaia il generale si incontrò con Enrico Sequi di Castelfranco di Sopra. Giovane ingegnere che dirigeva i lavori stradali presso Vaiano, egli aveva un amico fidato nel dottor Pietro Burresi, medico condotto di Poggibonsi, che doveva essere la prima tappa del lungo viaggio: al Burresi potevano dirigersi i viaggiatori per il cambio della vettura.
A Prato il 27 agosto furono consegnate a Garibaldi due lettere una dell’ingegner Sequi per il dottor Burresi, l’altra di Antonio Martini per un suo fratello del Bagno al Morbo presso Pomarance. In esse si pregava di assistere con ogni mezzo i due profughi senza dirne il nome.
Nell’impossibilità dunque di tentare per mancanza di guide il valico dei Monti fino al genovesato, i liberali pratesi diressero i profughi verso l’aspra Maremma, scegliendo due tappe fisse: Poggibonsi con l’aiuto del Burresi, Bagno al Morbo con l’aiuto di Girolamo Martini.
Al di là provvederebbe la fortuna, amica degli audaci.
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Verso la mezzanotte i due giunsero alla stazione di Prato ove dal capo Tommaso Fontani per mezzo di una scala a pioli furono fatti salire in un nascondiglio, in attesa che fosse pronta la vettura noleggiata dal Martini per il loro trasporto a Poggibonsi.
In due ore tutto era in ordine. In una carrozza a quattro ruote, ad un cavallo, partirono Garibaldi e Leggero, con parole di riconoscenza verso i loro salvatori Garibaldi donò al Sequi l’anello di Anita.
« La determinazione presa dai patrioti di Prato – scriverà l’eroe nelle sue Memorie (2) – di avviarci verso la Maremma era motivata dalla molta osservazione e rigorosa presa dal Governo Toscano sulla frontiera sarda per impedire il transito dei compromessi politici allora numerosi che cercavano rifugio in quella terra italiana, ove la prepotenza austriaca non doveva giammai trovare campo alle sue libidini… Il nostro viaggio da Prato alle Maremme fu veramente singolare.
Noi percorremmo gran tratto di paese in un legno, fermandoci per cambiar cavalli di tappa in tappa. In vari paesi le nostre fermate erano assai lunghe, di modo che si dava agio di circondare la nostra vettura ai curiosi; alcune volte erimo obbligati di discendere per mangiare o per altro; e come è naturale nei piccoli paesi erimo soggetti alle congetture degli oziosi disposti al cicaleccio sopra individui che non conoscono ».
(2) Le memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872. (Bologna, L. Cappelli 1932) Vol. I , p. 214
La carrozza era guidata da certo Vincenzo Cantini, garzone di Angelo Franchi, che credeva di condurre due negozianti a fare acquisto di bestiame in Maremma. Per la via di Empoli e per la valle dell’Elsa giunsero indisturbati presso Poggibonsi alle 8 del mattino e si fermarono fuori dell’abitato, alla casetta di Giuseppa Buonfanti sposata a tale Serafino Pucci, distante dal paese un duecento metri.
Un bambino della Buonfanti vide fermarsi il legno davanti alla porta, e scenderne i due, uno dei quali, l’Eroe delle camicie rosse, gli domandò cortesemente se era permesso di riposarsi un poco nella casa.
Il bambino riferì la domanda alla madre e questa, sollecita e premurosa, scese ad incontrare i due viaggiatori, li fece salire in cucina, mentre il vetturino, messo il cavallo nella stalla della Buonfanti, era mandato in paese per consegnare al dottor Burresi la lettera del Sequi, con la preghiera di provvedere un veicolo per proseguire il viaggio fino al Bagno al Morbo.
Il Generale chiese se poteva avere qualche cosa da mangiare e la buona donna voleva andare in paese per far provvista, ma egli non volle; sarebbero bastate delle uova. Non era infatti prudente propalare la notizia della loro presenza.
Mentre la donna badava a cuocere le uova e i due ospiti aspettavano in cucina, una bambina di forse tre anni, figlia della Buonfanti, attratta da viva simpatia per l’Eroe dei due mondi, gli andò confidenzialmente sulle ginocchia; voleva la mamma che la bimba non desse noia a quel signori ma Garibaldi presala in collo la baciò paternamente.
Nell’umile casa egli sembrava Giove nella casa di Bauci. Forse la povera donna non aveva mai sentito parlare di lui, forse se lo figurava un bandito sanguinario.
Il proposto Luigi Marini, ricercando per invito di Giovanni Mini (3) i particolari di questo passaggio, così gli scriveva:
« Ho potuto parlare con un figlio della Buonfanti, Tommaso Pucci, mi dice che a lui nel ‘49, di agosto, non sa precisare il giorno, comparvero in casa due signori, i quali gli domandarono se potevano essere alloggiati. Questi lo disse alla mamma e furono accolti gentilmente senza sapere chi fossero (uno, dice il Pucci, aveva la barba rossa e l’altro nera con i baffi).
Posarono due revolver e mangiarono solo uova affrittellate, pane e vino. Dopo alcune ore noleggiarono un calesse per il Fitto di Cecina, premendo loro di arrivare in tre ore. Il vetturino disse che il cavallo si sarebbe schiantato ma essi aggiunsero che lo avrebbero pagato: occorreva andare là in tre ore ».
Quando il Cantini tornò da Poggibonsi con l’assicurazione che presto la nuova vettura era pronta, la Buonfanti apparecchiava nel suo modesto salotto la mensa, alla quale sedettero Garibaldi, Leggero e il vetturino Pratese.
Poco prima di mezzogiorno venne il vetturino di Poggibonsi e Garibaldi, nell’accomiatarsi, la ringraziò caldamente e, nonostante la riluttanza di lei, volle ricompensarla dei preziosi servizi.
Si potrebbe chiedere se il dottor Pietro Burresi, allora medico condotto in paese, « bella figura di medico ippocratico – come fu detto – naturalista, filosofo e soprattutto uomo di cuore », allievo del Bufalini, poi rettore dell’Università di Siena e dal 1877 chiamato a succedere al suo maestro e al Ghinozzi nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, si potrebbe chiedere se egli parlasse con il Generale nella casa Buonfanti poiché nelle quattro ore di sosta i profughi non si mossero di là, ma pare certo che il Burresi, ignaro dei nomi dei due viaggiatori, si limitasse a provvedere quanto richiedeva l’amico di Prato.
La scelta del Vetturino fu ottima. Era questi un giovane liberale, certo Niccola Montereggi, da poco uscito di carcere per causa politica. Tuttavia anche a lui fu detto che conduceva due mercanti di bestiame.
(3) G. MINI, Il trafugamento di Giuseppe Garibaldi dalla pineta di Ravenna a Modigliana ed in Liguria nel 1849 (Vicenza; Luigi Fabris, 1907) p. 101
La Buonfanti, quando in seguito seppe il nome del suo grande ospite tanto se ne compiacque che conservò come una reliquia la stoviglie delle uova e il bicchiere a cui aveva bevuto il Generale. E quando nel 1867 questi, passando da Poggibonsi, volle rivedere la casa ospitale, la buona donna non si saziava di riguardarlo estatica.
E Garibaldi, dopo tante vicende ardue e gloriose, mostrò di ricordarsi i più minuti particolari e domandò anche della bambina che aveva tenuto fra le braccia. Gli fu presentata una giovane di oltre 20 anni, sulla cui fronte rinnovò il bacio paterno dell’anno amaro della sconfitta e della fuga.
Partiti dalla casa Buonfanti, Garibaldi e Leggero percorsero la strada che fiancheggia il paese, ingombra di soldati austriaci, e arrivarono a Colle in un giorno di straordinario affollamento, il lunedì 27 agosto. Il vetturino, lungo il cammino, pensò di cambiare il cavallo con una buona cavalla – detta la Chioccia – con la quale un suo fratello aveva portato a Colle alcuni passeggeri.
Per il cambio, si fermarono alla locanda di Moneta condotta allora da Luigi Papini, nella casa Buccianti di via San Jacopo, ora via Stefano Masson. I due viaggiatori, durante il cambio del cavallo, rimasero in mezzo alla strada, fatti segno ad una molesta curiosità.
Garibaldi stesso ne fa rapido cenno nelle sue Memorie:
« A Colle soprattutto fummo attorniati da una folla che non mancò di darci segno di sospetto e di avversione alle nostre fisionomie tutt’altro che di pacifici e indifferenti viaggiatori. Non altro successe però fuori che qualche parolaccia indecorosa e che noi dissimulammo com’era naturale ».
Ripreso subito il cammino e passando per il Castelletto di San Gimignano, giunsero verso le tre pomeridiane ai Monumenti di Volterra e di qui, per le Saline e rasentando Pomarance al Bagno al Morbo, alle 11:00 di sera del giorno stesso in cui erano partiti da Prato.
Ancora altri pericoli prima di raggiungere il mare liberatore, ma finalmente, per l’aiuto di quattro scarlinesi specialmente di Angelo Guelfi, l’avventuroso trafugamento attraverso la selvaggia Maremma si compieva a Cala Martina, da dove il Generale con Leggero la mattina del 2 settembre salpò su di una vecchia tartana verso Porto Venere.
Senza il solitario scoglio di Cala Martina – come notò il figlio di uno degli eroici salvatori, Guelfo Guelfi, diligentissimo storico dell’odissea che abbiamo narrata (4) – l’Italia non avrebbe potuto un giorno vedere la gloria dello scoglio di Quarto.
(4) GUELFO GUELFI, Dal Molino di Cerbaia a Cala Martina (Firenze, S. Landi, 1889). Cfr anche l’opuscolo di RICCIARDO RICCIARDI, Da Prato a Porto Venere ossia un episodio della vita del Generale Giuseppe Garibaldi narrato al popolo (Grosseto, Tip. di G. Barbanelli 1873) e il bell’articolo di BRUNO BRUNI, Da Ravenna allo scoglio di Cala Martina nel Messaggero di Roma, 9 luglio 1932.
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Come nel maggio scorso a Colle alla presenza di un nipote dell’Eroe leggendario e nelle felici parole dettate dal nostro consocio avv. Ernesto Martone Vezzi, è stato ricordato il rapido passaggio, così prima a Volterra, e prima ancora a Scarlino e a Poggibonsi un marmo tramanda ai posteri la memoria dell’avvenimento.
Francesco Domenico Guerrazzi nell’Assedio di Roma aveva accennato (Livorno, 1864, pag. 876) al salvamento di Garibaldi compiuto da una mano di patrioti a « l’eroico aiuto dei buoni, e per ultimo lo scampo miracoloso per virtù del Guelfi maremmano nostro, bella gloria toscana ».
Nelle successive edizioni (Milano, 1870, pag. 899) premise a quello del Guelfi il nome della popolana Buonfanti. E lo scrittore livornese ebbe l’incarico di scrivere l’epigrafe in gloria di lei.
L’epigrafe è questa:
CERCATO A MORTE DAGLI AUSTRIACI
DAGLI ITALIANI UOMINI DERELITTO
QUI UNA DONNA
GIUSEPPA BUONFANTI
OSPITAVA GIUSEPPE GARIBALDI NEL 1849
E PROVVEDEVA ALLA SALVEZZA DI LUI
L ‘EROE
IL 19 AGOSTO 1867
DI QUI RIPASSANDO
RIVIDE LA CASA E LA DONNA
QUESTA RINGRAZIANDO E LODANDO
PER LA VIRTU’ SUA ANCHE FRA LE ANTICHE
RARISSIMA
ALCUNI CITTADINI DI POGGIBONSI
PERCHE’ SI PERENNASSE IL FATTO
ALLA CASA OSPITALE
QUESTA LAPIDE SI PONESSE CURARONO
IL 4 LUGLIO 1870 (5)
(5) Nella raccolta di epigrafi di F.D. GUERRAZZI (Livorno, G. Fabreschi, 104) questa epigrafe è riprodotta con qualche variante.
Nel 1900 per iniziativa del Dott Giuseppe Del Zanna, nostro carissimo consocio di cui è vivo e cocente il rimpianto, l’epigrafe divenuta illeggibile fu riprodotta in un marmo più grande con l’aggiunta: « La popolazione di Poggibonsi rinnovò il marmo nell’anno 1900 ».
Dove si può notare il cambiamento dell’opinione pubblica nel giudicare l’eroe e gli avvenimenti: quelli che nel 70, prima della Breccia di Raffaele Cadorna erano “alcuni cittadini” dopo 30 anni divennero la popolazione dell’intero paese.
Giuseppa Buonfanti morì il 2 dicembre 1869 e non ebbe nessun ricordo marmoreo al cimitero: fu inumata nei quadri e ormai i suoi resti sono da quasi 70 anni nel ossario comune.
Il pittore poggibonsese Carlo Iozzi ritrasse in una grande tela l’episodio della seconda visita di Garibaldi alla Buonfanti, riproducendo nella folla accorsa tipi conosciuti di paesani: il quadro perciò ebbe uno schietto successo popolare.
Attualmente è di proprietà del Signore ingegner Guido Bizzarri che lo tiene nel suo vicino castello di Strozzavolpe. (6)
(6) Lo stesso Jozzi dipinse anche il primo passaggio di Garibaldi per Poggibonsi. Il quadro si trova presso una famiglia del paese e si riproduce in queste pagine per la cortesia dell’egregio architetto professor Carlo Del Zanna a cui mi è gradito rinnovare i più vivi ringraziamenti.
Immagini
Poggibonsi, La casa di Giuseppa Buonfanti che ospitò Garibaldi nel 1849.
La scritta in alto dice:
« 1849. Garibaldi, lasciata la casetta Buonfanti (dopo avervi passata la notte [sic.] assieme al compagno, imbarcato nel veicolo di Niccola Montereggi, diretto per Sant’ Armazio, traversa la piazza de’ Fossi di Poggibonsi, dove sostano gli Austriaci marcianti per Montepulciano, a sperdere gli avanzi dei difensori di Roma, prendendo Garibaldi stesso!! »
La scritta in basso : « Carlo Jozzi compose secondo il racconto del vetturale Niccola Montereggi ».
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